Borgia e Cotugno: le parole di Matteotti. La costruzione epica di un esemplare di Carlo Lei

Foto di Luca Del Pia

Ci siamo tutti più volte imbattuti nell’esclamazione del Galileo brechtiano: «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi», risposta a quella di Andrea Sarti, che accompagnava l’abiura dinanzi all’Inquisizione, «Sventurata la terra che non ha eroi!» (Scena XIII). Da quel 10 giugno 1924 in cui Matteotti fu rapito da Amerigo Dumini e dai suoi in un’Italia sventurata davvero – e sventurata ancor più sarebbe diventata nei decenni a seguire – scoccano in queste ore i cento anni. E si depositano fiori in Lungotevere Arnaldo da Brescia, luogo del rapimento, magari si ripulisce dalle erbe infestanti il monumento sulla via Flaminia all’altezza di Riano, dove fu trovato, mesi dopo, cadavere. Come operi quella metamorfosi (a ondate scandite da ricorrenze? Per lenta emersione? Per disperazione?) che porta un corpo umano, una biografia, alla luminosa trascendenza degli eroi è da sempre oggetto di riflessione. Oggi per Matteotti il tempo di un secolo è più che sufficiente perché si perfezioni quell’opera di assunzione a esemplare della sua figura, con tutti i pericolosi rischi della semplificazione (ma l’eroe è sempre figura d’invenzione) e del dilagamento e oscuramento di altri (quanti, anche tra quelli che lo stesso deputato socialista citava senza nomi e cognomi nei suoi discorsi, ammazzati da mano fascista, quanti dopo di lui…).
Per questo, se c’è un modo equilibrato, faticoso, perché impedisce l’abbandono alla memoria entusiasta di un padre-guida, perché mantiene le ambiguità, il peso fisico delle parole oggettivamente registrate, non per questo meno grandi di quelle parafrasate, se c’è un modo, si diceva, per celebrare e continuare a imparare dall’esempio di Giacomo Matteotti, è quello di studiarlo nelle sue idee espresse, che gli atti parlamentari conservano.
È precisamente questo il lavoro compiuto da Gianpiero Borgia ed Elena Cotugno (quest’ultima sola in scena in una prova in cui l’aggettivo “brechtiano” non può che essere evocato qui per la seconda volta, accompagnato dall’avverbio “magistralmente”) compiono in scena, per la ricorrenza, di poche settimane successiva al pure notevole Matteotti Medley di Maurizio Donadoni, del rapimento.

Foto di Luca Del Pia

Questo fanno, insomma, con il loro Giacomo: mettono mano a due suoi interventi parlamentari, quello del 31 gennaio 1921 e quello del 30 maggio 1924, l’ultimo che gli fu consentito di fare, e li portano con minimi, impercettibili aggiustamenti, in scena. Tale lavoro sopra un testo dato (che, sia detto tra parentesi, è solo parzialmente teatrale, per quanto costruito con retorica da discorso pubblico) produce due importanti risultati.
Il primo è quello di evitare, espellendo qualunque esplicita figura di tramite autoriale, la retorica del “parlare di”, consentendo alle parole pronunciate in quei contesti di delineare con fermezza e generosità la figura dell’uomo e del politico, tanto plasticamente in quanto stagliato prima su un fondo cupo, l’ultimo governo del liberale Giolitti, tra biennio rosso e violenze crescenti delle squadracce, tra occupazioni agrarie e scalpitante, insofferente crescita del capitalismo italiano, poi su quello del primo governo a maggioranza fascista.
Il secondo importante risultato è quello di delineare la qualità del politico di adattarsi di fronte alle diverse situazioni in cui la sua azione si è trovata, conferma quanto mai oggettiva della duttilità dell’analisi marxista della società, sempre in un continuo andirivieni tra la ricerca della dimostrazione empirica, l’analisi dei dati e il ricorso allo studio teorico.
Nel 1921, in un discorso posto dietro a una fermissima lente analitica, scritto con una retorica luminosissima (quanto penoso, anche in questi termini, risulterebbe rileggere il famoso discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925 – tacendo ovviamente degli attuali), Matteotti scrive, chissà se inconsapevolmente, un capitolo da libro di storia, che smaschera la «necessità storica» del Fascismo, risposta a un preciso interesse della classe capitalistica. Qui Matteotti non manca di uscire dalla pura analisi: se da un lato continua a chiedere ai suoi compagni di non cedere a provocazioni e addirittura di non rispondere a violenze, se si assume la responsabilità di averla teorizzata, la violenza, come accettabile nella dinamica della lotta di classe, esige però che tutto il governo si prenda una speculare responsabilità nella scelta della tolleranza verso violenze fasciste, e dunque delle violenze stesse. «Il capitalismo aggredito nella borsa genera – dice – la violenza del Fascismo». Siamo qui di fronte a un attacco ancor più radicale, ancora più inflessibile dell’ultimo, noto discorso, per quanto composto in una lingua e in uno stile elevati, che non si sbaglierebbe a definire schiettamente tragici.
Cambia la situazione, c’è stata la marcia su Roma, l’incarico a Mussolini, c’è la legge Acerbo, ciò nonostante, i brogli e le violenze nelle elezioni del 1924 sono palesi. Prende la parola, parlando più o meno a braccio, Matteotti, chiedendo alla giunta delle elezioni di non confermarne i risultati. Ed ecco che, per forza di cose, la lingua dell’oratore Matteotti, pur senza abbassarsi di tono, plasma sentenze sferzanti, quasi sempre a segno, risponde alle interruzioni, accumula prove e accuse con un gesto come di raccogliere pietra dopo pietra per un povero ma strenuo arsenale di libertà, staccandole dal terreno, con un’acribia e un’operosità disarmanti ma sui fatti, sempre sui fatti. I fatti e la stampa sono la sua ossessione, come dimostra un suo recentemente ripubblicato volumetto Un anno di dominazione fascista, (Rizzoli, 2019) modernissimo e asciutto in un’analisi della stampa che punta a registrare ai contemporanei ma, implicitamente, a futura memoria, lo scenario di quei giorni.

Foto di Luca Del Pia

Fin qui il testo, che nelle mani di Borgia e Cotugno, e con quelle funzioni che gli si attribuivano, ordina tutto lo spettacolo, ne è struttura, ne incarna la lingua rappresentativa, ne rivendica l’obiettivo politico. Come questo testo poi venga steso, assestato sul palco, è questione gestita con strumenti insieme sicuri e delicatissimi.
A centro palco un cumulo di scranni parlamentari dismessi (un «bivacco di manipoli», avrebbe detto “lui”) a carattere quasi installativo, coperti da quei teli di cellophane che si distendono sui mobili in una casa lasciata disabitata per lungo tempo, gli stessi teli già aggrediti dalle correnti d’aria, dalla polvere. A destra un trabattello per le luci, chissà se necessità di scena per un allestimento fugace, o precisa scelta registica. Su di esso anche dei bicchieri d’acqua che, nell’intervallo fra i due discorsi, Cotugno berrà, anzi trangugerà a forza soffocando nella strozza canti politici, suscitando un immediato rimando alla pratica dell’olio di ricino. Il primo discorso (nessun microfono, voce naturale, improvviso miracolo del silenzio e del contatto con il corpo della voce) è pronunciato dall’alto di quei banchi divelti, ed è porto con un’enfasi sostenuta ma diretta da ininterrotta cura del dettato, perché il contenuto non sia mai oscuro, così che tanto l’arco lungo della costruzione retorica quanto gli incisi, l’ipotassi, le collocazioni talvolta arcaizzanti non compromettano la perfetta comprensione dell’analisi del parlamentare. Le braccia sono levate, il discorso solca la platea, sembra uscire per le strade, dilagare per tutta Roma. Il secondo, quello del ’24, è invece pungolato, trascinato, scagliato a prezzo di scontri violenti con altri deputati, sempre nella voce di Cotugno, interruzioni innumerevoli, ed è strattonato tra quelle vestigia di parlamento, si arrampica sui banchi, si conclude con uno straziante soffiato (anche qui, non ricorda, non tende forse al grido muto di Helene Weigel-Madre Courage?). E anche noi, non possiamo che concludere con alcune di quelle ultime frasi disperate, esortative, come tese a voler ridestare i colleghi parlamentari da un sonno della ragione che, protratto, non sarebbe più redimibile. Tra le quali vi è questa che, ce ne accorgiamo con un brivido, suona oggi, più che incoraggiante, scandalosamente ottimistica, scandalosamente inattuale, non più considerazione sul presente, ma selvaggio augurio per il futuro. Dice: «Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo». Rileggendola, facciamo grande fatica a non riconoscerci più concordi con la sentenza di Andrea che con quella di Galileo.

Giacomo- Un intervento d’arte drammatica in ambito politico

 dai verbali delle assemblee parlamentari del 31 gennaio 1921 e del 30 maggio 1924
progetto Elena Cotugno e Gianpiero Borgia
parole di Giacomo Matteotti con interruzioni d’Aula
drammaturgia di Elena Cotugno e Gianpiero Borgia
ideazione, coaching, regia e luci Gianpiero Borgia
con Elena Cotugno
costumi Giuseppe Avallone
artigiano dello spazio scenico Filippo Sarcinelli.

Teatro Argentina, Roma, 10 giugno 2024.

Prossime date:
Ostuni, chiostro del Palazzo di Città, 22 giugno 2024
Ruvo di Puglia, Fondazione Angelo Cesareo Serra Petrullo, 23 giugno 2024
Fratta Polesine (città natale di Giacomo Matteotti), Parco di Casa Museo Matteotti, 21 settembre 2024
Parigi, Istituto di Cultura, fine settembre 2024
Bologna, Sala Borsa, 7 novembre 2024.