Alcune commedie hanno la sola finalità di far ridere, altre – sebbene abbiano il medesimo obiettivo – hanno anche l’intento di offrire agli spettatori qualche spunto di discussione e di riflessione. Call center 3.0, lavoro scritto e diretto da Roberto D’Alessandro (ex allievo della Scuola Teatrale di Esercitazioni Sceniche di Gigi Proietti ma, per chi scrive, indimenticabile componente del trio de “I picari”, gruppo attivo dalla fine degli anni Novanta costituito con Augusto Fornari e Marco Simeoli), rappresenta questa seconda tipologia di scrittura scenica, rivolgendosi a un pubblico sicuramente desideroso di rilassarsi, nel vedere uno spettacolo stilisticamente vicino alla sitcom televisiva, eppure non per questo “indisponibile” a mantenere un contatto con la vita quotidiana che, se non “reale” è, quantomeno, auspicabile e plausibile.
A poche ore dalla fine dell’anno, in un call center si attardano, in attesa di recarsi al veglione organizzato dalla stessa azienda, l’operatrice dal “cuore tenero” Giovanna (Milena Miconi); il tutor-provolone Filippo (Franco Oppini); Luisa (Karin Proia), titolare dell’azienda – organizzata secondo l’“umanesimo industriale” preconizzato da Adriano Olivetti – e il suo fidanzato Mario (Luca Capuano) per vocazione aspirante insegnante di filosofia ma, di fatto, direttore della compagnia. Nel comprensorio, inoltre, sono presenti una guardia giurata (Roberto D’Alessandro), dotata di disastrose velleità canore e la “caliente” donna delle pulizie, rumena, Teresa (Cecilia Taddei).
Giovanna, durante una delle ultime telefonate dell’anno fatta nella speranza di conquistare un bonus di produzione, viene intimidita dal comportamento di un potenziale cliente e fornisce a costui, incautamente, l’indirizzo della ditta. L’ignoto interlocutore (soggetto disperato a causa della perdita del posto di lavoro e per essere stato cornificato e cacciato di casa dalla moglie), armi in pugno, si introduce nell’azienda, prendendo in ostaggio tutti i presenti. Giorgio (Pietro Genuardi), il sequestratore, non è in cerca di denaro bensì di “giustizia” e di risposte ai suoi tanti perché. Vuole vendicarsi della società che lo ha estromesso dal mondo produttivo e, soprattutto, della donna che lo ha ferito. Nel corso della serata scopriremo che Giorgio, in fondo, non è un soggetto malvagio piuttosto un onesto “pensatore” che desidera continuare a credere nelle storiche ideologie di matrice sociale (oramai, tristemente, desuete n.d.r.) e nella bontà dei sentimenti umani. Per lui: «il vero schiavo non ha le catene ai piedi ma in testa» perché, in qualche modo, chi fa sempre ciò che gli altri si aspettano da lui è schiavo, in primis, della propria mente incapace di ribellarsi agli schemi precostituiti.
Dopo una serie di colpi di scena, svelamenti e drammi d’amore, tutti i componenti dell’insolita festa di San Silvestro, col giungere dell’alba del nuovo anno, sembrano abbiano perso la rotta della loro esistenza.
Occorreranno altri 365 giorni e il continuo perseguire dei loro sogni, dei loro desideri, affinché tutti i protagonisti possano ottenere ciascuno il proprio lieto fine: conclusione tipica di tutte le sitcom.
La commedia ha molti risvolti interessanti. Per cominciare, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, è doveroso un plauso all’autore/regista che ha puntato sulle capacità recitative delle protagoniste senza per forza indulgere sulle loro doti “estetiche”.
L’intreccio sentimentale è garantito dal duo Karin Proia e Luca Capuano che, in una serie di dialoghi “seri” e ben strutturati, creano un ottimo feeling scenico. L’amore, distaccato e passionale tra intellettuali, oscillante entro i limiti della razionalità e del romanticismo, ben si addice alla coppia che, con naturalezza, passa dalle effusioni alle, pur sempre “contenute”, scaramucce amorose. La guida alla narrazione “sociale” della commedia è, invece, affidata a Pietro Genuardi che nella figura di Giorgio, spalleggiato dal duo Proia-Capuano, rappresenta il deus ex machina. Al quartetto Milena Miconi, Cecilia Taddei, Roberto D’Alessandro e Franco Oppini (mi si conceda l’uso dei nomi in ordine di cavalleria e, poi, alfabetico) il non facile e faticoso compito di far ridere. A tal proposito c’è da dire che se in scena il ruolo demandato alla Miconi, quello della tenera e disillusa “burinotta”, ne ha valorizzato la verve comica e messo in mostra una piacevole autoironia, quello assegnato a Oppini, un provolone psicotico, che pur ha espresso un’ottima fisicità clownesca, lo ha invece penalizzato nella parte recitativa.
Particolarmente esilarante, seppure scontata, la caratterizzazione della domestica proposta dalla Taddei che è riuscita a vivacizzare la serata assieme alle improbabili canzoni romantiche “gorgheggiate” della guardia giurata, interpretata da D’Alessandro.
Complessivamente un lavoro ben strutturato, che fa ridere ma senza parossismi.
La storia, nella sua plausibilità scenica, pur nella totale irrealtà quotidiana (tutti sappiamo quale siano le condizioni di lavoro degli impiegati nei call center, una situazione del resto chiaramente denunciata anche dal palco), nel suo lieto fine lascia intravedere che un futuro migliore è possibile, basandosi su quel concetto di “speranza” tipica più della commedia made in USA che di quella italiana.
La scenografia di Biagio Barbarisi mette in risalto gli attori, sfruttando i toni brillanti dei colori giallo e verde con un rosa vivo, di sfondo, negli ambienti secondari.
Call center 3.0
di Roberto D’alessandro
con Franco Oppini, Milena Miconi, Luca Capuano, Karin Proia, Pietro Genuardi, Roberto D’Alessandro e Cecilia Taddei
regia Roberto D’alessandro
scene Biagio Barbarisi
costumi Susanna Proietti
musiche Mariano Perrella
aiuto regia Francesco Ragosta
luci e fonica Pietro Frascaro
grafica Camaleo
Teatro de’ Servi, Roma, fino al 10 marzo 2019.