Certe danze. Chiara Bersani allo Spazio Rossellini e Francesca La Cava al Teatro del Lido di Paolo Ruffini

Foto di Giuseppe Follacchio

È iniziato il Festival Equilibrio promosso dall’Auditorium Parco della Musica ma, nel frattempo, altri appuntamenti con la sintassi coreutica si imprimono in alcuni spazi romani in una continuità decisamente ricettiva, di grande “ascolto”, quasi a sottolineare una speciale vocazione verso il discorso gestuale e percettivo della performance di questa città che muove attenzioni di ricerca, ospita artisti e artiste, matura una consapevolezza persino radicale, seppure in un ambito minoritario qual è quello della danza contemporanea. E con l’aggettivo-sostantivo che la definisce abbiamo imparato a gestire il troppo spesso rimosso di quell’esperienza ultra-novecentesca che arriva all’oggi. Un Novecento dilaniato che non vuole lasciarci e che ha prosciugato l’enfasi della retorica di una danza per lo spettacolo, anche in quel tratto del bien fait che storicamente sancisce il fallimento culturale dello spettacolo stesso.
La danza qui a Roma è un grimaldello e gli artisti e le artiste che la abitano fanno i conti, non da oggi, con questo fallimento che concettualmente li/le colloca in un universo aderente al proprio tempo (agganciato a quel Novecento che si ripresenta sistematicamente ingannando chi crede di aver scavallato quella eredità). Eppure, è nella danza l’opportunità di archiviare il peso della spettacolarizzazione del pensiero, ferocemente anarchica, felicemente liberata dagli ammennicoli dei codici e dagli obblighi estetici, la danza coltiva varianti sociali e utopie coscienti.

Foto di Giuseppe Follacchio

Come uno scrigno che contiene un magma di pulsioni per farle poi esplodere in intuizioni di una condizione declinata secondo un lessico inusuale, inaspettato, al di là dello stare e del percepirsi in scena, il lavoro di Chiara Bersani nel suo apparire un «laboratorio di femminilità» (frase rubata a Alice Robb in una sua recente intervista (1), lì a disinnescare in potenza la tensione linguistica della danza e a illuminarla di contraddizioni, qui per sottolinearne il livello di “rivolta” che la danza può dare nella performance), si esprime con rigore estremo, per immaginari in accumulo, andamento del tempo e posture critiche centellinate. Compassionevole è il suo sguardo, mutuando la performance in esperienza politica, anche per lo spettatore, e dove il corpo per questo è opportunità di un ripensamento nella grammatica dei comportamenti (fuori e dentro la scena); sillabari di un farsi, sembrerebbe, come geografie spaziali imperiose con cedimenti degli architravi dello spettacolo, quello sgretolamento delle certezze acquisite storicamente dal corpo che qui, nel suo lavoro, si riposizionano. Sottobosco è stato presentato lo scorso 7 febbraio allo Spazio Rossellini per la stagione di Orbita | Spellbound, un sistema artistico linguisticamente tutto “riannodato” a un fraseggio di segni lì a indicarci un nuovo inizio, nuove comunità dialoganti che Chiara Bersani condivide con Elena Sgarbossa e, di volta in volta, con un nucleo di altre persone con disabilità motoria (in questo appuntamento romano, tutto al femminile).
Lo spazio è delimitato da un grande rettangolo a terra disseminato di marshmallows, quasi un campo scheggiato, un ossario, una iridescenza sintetica quanto dei batteri di un altro pianeta venuti a depositarsi e a proliferare. Lei entra e scivola su questo manto di morbidezze improprie, da mercato occidentale che ha infettato il gusto, anzi lo ha colonizzato, ne attraversa gli orizzonti e le perpendicolari creando col corpo campi prima non visti, altre configurazioni nella sottile percezione di uno spazio in movimento. Alle sue spalle si apre dal basso un altro emisfero, fascio luminoso che scopre un opposto-identico di quel corpo che si definisce orizzontalmente, per certi versi un controcanto alla performer, sono piedi che si muovono apparentemente nella parte opposta, un nuovo “discorso” a latere in verticale, altro da sé atta a tessere una aggiuntiva condizione in ricerca in questo sottobosco vivido di vita e possibilità percettive. Entrambe nelle loro fogge austere e scure, una trasfigurazione castellucciana che lima i profili fino a farli diventare ombre senzienti, fanno da controluce a un campo che va modificandosi con l’entrata in scena di altre protagoniste, mentre la voce di Chiara Bersani echeggia nella sinestetica campitura sonora eseguita live da Lemmo: «E poi, in un giorno che non posso chiamare giorno, e poi è arrivato un contorno».
Tutte ci riveleranno una lingua tra loro piena di impressioni, che rasenta la vicinanza emotiva ed etica tra loro e con lo spettatore, che scopre una idea non consumata di presenza dell’essere e dell’esserci, uno spazio condiviso in quanto spazio praticato, per dirla con Michel de Certeau. Una lingua fatta di accenni muti, disegni con le mani come filature di ragnatele, come fiati coreografati mentre quei corpi accennano a piccoli sobbalzi. Lavoro struggente e di grandissimo spessore poetico.

Foto di Paolo Porto

Al Teatro del Lido di Ostia è arrivato lo scorso 8 febbraio lo spettacolo di Francesca La Cava Girugiru, un grammelot coreografico simbolicamente molto ben costruito e smisuratamente ampliato da riferimenti dichiarati che vanno a incunearsi nei mondi della cultura dell’antropologia teatrale.
Il movimento si determina in quei piccoli, sinuosi e accennati passi dei danzatori e delle danzatrici sul proprio spazio d’azione, a volte incontrando una titubanza, altre aprendosi a “dialoghi” radiosi, quasi felici, ma prontamente accompagnati da malinconici ritorni a un corpo-a-corpo con la propria solitudine. Una temperie emozionale decisamente sempre in bilico tra rinuncia e gesto di superamento. Fanno da coro i e le performer oltre il proprio racconto alle cesellature della stessa (e brava) Francesca La Cava, che interviene come a redimere quello spazio da possibili eversioni a-morali. E il racconto si fa drammaturgia del corpo, si fa enunciato, riconducibile a una gestualità non verbale ma testuale che orienta, ma potremmo dire si impone con una scrittura scenica a scapito di quella coreografica che si “consuma” aderendo a quella scrittura. Piccole danze, porzioni di umanità.
Per questo Girugiru è un riuscito connubio tra testualità immaginata e movimento. Un enunciato che aspira a definirsi come memoria collettiva di un processo. «I termini “testo” ed “enunciato” rinviano, rispettivamente, all’elaborazione attuata su un testo preciso e a quella attuata sui materiali linguistici offerti dai sottosistemi della lingua…» (2).
Inizia lo spettacolo e troviamo una donna seduta sul proscenio, figura ancestrale, universo di mondi mediterranei, del sudest asiatico, sudamericani, archetipo di un teatro disseminato, di comunità, la stessa che sul finale rovesciando la percezione di sé sembra tessere la tela del tempo e dove prima le figurazioni dei danzatori e delle danzatrici hanno mostrato una pudicizia “letteraria”, ora la nudità trasfigurata preannuncia l’idea di un corpo archivio che la coreografa sembra ricercare. Lavoro asciutto e lieve.

Note
1) Mara Accettura, L’ultimo plié, in “D – la Repubblica delle donne”, settimanale, supplemento de “la Repubblica”, anno 29, n.1425, 8 febbraio 2025, p. 52.
2) Cesare Segre, Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Einaudi, Torino, 1984, p. 107.

Foto di Paolo Porto