È possibile che i classici contemporanei siano tutti americani? Ogni tanto, viene da chiederselo. È indubbio che autori come Arthur Miller e Tennessee Williams continuino ad esercitare un forte potere d’attrazione: le strutture profonde e le situazioni archetipiche delle loro opere attraversano il Novecento con la stessa forza tellurica dei grandi tragici greci. Ma anche in quel repertorio ci sono testi che resistono di meno all’azione implacabile del tempo. Se, per esempio, all’interno dello stesso repertorio milleriano, Morte di un commesso viaggiatore si radica sulla questione intramontabile dell’identità e del fallimento, Uno sguardo sul ponte, se non si fa attenzione, diventa in un attimo un fosco melodramma sul tema della gelosia. E a poco valgono i tentativi di renderlo grottesco o ridicolo (pensiamo, per esempio, alla recente messa in scena di Massimo Popolizio, che fa riferimento più alla propria maschera attoriale che alla drammaturgia della rovina). Con l’eccezione di Antonio Latella, che ha trovato una forma limpida, perturbante, alla diagnosi clinico-estetica di Chi ha paura di Virginia Woolf? di Albee, oggi molti interpreti del teatro italiano, incaponendosi in questa direzione, stanno perdendo la direzione critica. Interrogare il nostro repertorio è tutto fuorché un gesto nazionalistico. Semplicemente, autori come Testori, Tarantino, Ruccello, Scaldati, Moscato, Scimone (alcuni di loro, per salvarsi la vita, hanno creato le proprie compagnie), hanno moltissimo da dire sulla vita che conduciamo oggi. Ronconi ci ha insegnato che si può far riferimento anche ai grandi classici della letteratura, per capire di più sul nostro presente.
Questo preambolo per dire che, senza fare grandi proclami, un attore stimato come Fausto Cabra ha scelto di debuttare nella regia affrontando, niente di meno, che La Storia di Elsa Morante. Da quest’operazione poteva venire fuori di tutto: un tentativo puramente didattico, una confezione bozzettistica, un manuale egoriferito. Oltre che togliere sé stesso dalla scena, l’attore bresciano ha avuto l’intelligenza di chiedere a uno scrittore come Marco Archetti di lavorare sull’adattamento teatrale (un po’ come aveva fatto lo stesso Popolizio chiamando Emanuele Trevi per la traduzione scenica di Ragazzi di vita di Pasolini e di Furore di Steinbeck).
Con quale risultato? Vivificante. Al Teatro Vascello, che ha accolto le repliche romane de La Storia (figurando anche tra i produttori), non si sentiva quasi il respiro degli spettatori. Di sicuro, molti conoscevano il grande romanzo pubblicato dalla Morante nel 1974, che fu oggetto anche di veementi critiche, al punto che Cesare Garboli, firmando per Einaudi, venti anni dopo, la prefazione alla nuova edizione dell’opera, dovette ammettere che aveva l’impressione di leggere quelle seicento pagine per la prima volta. Allora, La Storia fu accusata, lo dice proprio Garboli in quelle pagine, di «speculare sulla sofferenza, di vendere disperazione, di propagare pessimismo». Nel frattempo, sono passati quasi cinquant’anni. Come fare i conti con quella vicenda letteraria? Cabra e i suoi compagni di viaggio non erano ancora nati nel 1974. E forse proprio per questo possono sentirsi liberi di guardare indietro, poggiando su una propria sensibilità che non si è cristallizzata in totem e tabù dell’epoca. L’esperimento non è stato fatto, però, a cuor leggero. Innanzitutto, dalle onde sismiche del libro sono emerse quelle parti “numinose” e umoristiche che si nutrono di un sacro quotidiano e di uno spirito di osservazione fulminante. Per richiamarle in vita, si è fatto ricorso a una solida struttura drammaturgica. Siamo nel presente. Una donna ha perso l’aereo. Chiama al telefono i suoi due figli per dire che farà tardi. Ed è in quel tempo sospeso che la madre comincia a leggere La Storia di Elsa Morante.
Tutto quello che accade sotto a nostri occhi è il frutto della sua immaginazione che seleziona, dal gigantesco corpo narrativo (fatto anche di molte digressioni storiche), quelle parti drammatiche incollate sulla triade familiare (Ida, Nino e Useppe). La storia bellica e la tragedia degli ultimi si sciolgono in uno spazio scenico che ricorda Dogville di Lars Von Trier. Niente è lasciato al caso. E la performance, sapiente e dinamica, dei tre interpreti (Franca Penone, Alberto Onofrietti, Francesco Sferrazza Papa), trova una disposizione spaziale millimetrica, frutto di un accurato lavoro sul testo. La precisa toponomastica della Morante, che racchiude la città di Roma e il dramma bellico essenzialmente attorno ai quartieri di San Lorenzo e Testaccio, viene scolpita nello spazio scenico come se, attorno a un preciso punto in movimento (la lezione è di Brook) potesse essere calamitata tutta un’epopea. Lo stesso Garboli parlava, nella sua introduzione, di stampo brechtiano. Ma quello che colpisce, nella messa in scena di Fausto Cabra, è l’estrema vitalità dei personaggi. Tutti sono destinati a perire. Eppure, nella pièce non domina un tono di funesta attesa. Noi siamo Ida, Nino e Useppe, ma siamo anche quella donna che, in qualsiasi aeroporto contemporaneo, comincia a leggere il romanzo della Morante che ci racconta un pezzo di storia del Novecento. Lo spettacolo parla ai nostri sensi, compreso il sesto, che è intuizione e pensiero, e alla fine tutto racchiude. Lettori e spettatori di un’avventura umana e storica che parla alla nostra giovinezza, cioè alla nostra capacità di immaginazione, indipendentemente dal momento in cui siamo nati e abbiamo vissuto. Perché le grandi opere non appartengono di certo solo a coloro che sono stati contemporanei dell’autore. Dei cenacoli e dei simposi poco sopravvive. Mentre negli occhi di chi legge, interpreta e vede, ad ogni latitudine e in qualunque momento storico, si può consumare il miracolo della scoperta, la “messa in vita” di un’opera che credevamo di conoscere e che oggi ci parla come se ci riguardasse profondamente. Che fine fa la donna che ha perso l’aereo? A tarda notte tornerà a casa per riabbracciare i propri figli.
La Storia. Uno scandalo che dura da diecimila anni
liberamente ispirato a La storia di Elsa Morante, edito in Italia da Giulio Einaudi Editore by arrangement with The Italian Literary Agency
drammaturgia Marco Archetti
regia Fausto Cabra
con Franca Penone, Alberto Onofrietti, Francesco Sferrazza Papa
scene e costumi Roberta Monopoli
drammaturgia del suono Mimosa Campironi
video Giulio Cavallini
regista assistente Silvia Quarantini
consulenza movimenti scenici Marco Angelilli
ideazione luci Gianluca Breda, Giacomo Brambilla
produzione Centro Teatrale Bresciano, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello.