Attrice, regista, cantante, autrice, poetessa e creatrice di gioielli. Come minimo comun denominatore il teatro. È Clara Galante che proprio nel nome porta la sua firma e la sua missione: essere chiara, trasparente. «Il mio nome mi rispecchia molto perché cerco sempre di fare chiarezza nelle mie relazioni e nella mia testa. Ma tutto questo ha un prezzo», confessa l’artista. Nonostante la sospensione dell’attività teatrale, la sua poliedricità le ha permesso di non arrestarsi mai e di continuare, seppur con dispiacere per il mancato abbraccio del pubblico, a fare ricerca, sperimentare e prepararsi per il prossimo importante progetto che parte da Lachrimae la melodia più famosa composta da John Dowland, compositore e filosofo inglese del XVII secolo.
Lacrime non solo di dolore ma anche di gioia: ci racconti il tuo nuovo progetto?
Lachrimae – The Alchemich Journey è un progetto trasversale che parte appunto dalla musica di Dowland. Noi la porteremo in scena con Cristiano Contadin che dirigerà un consort di 5 viole da gamba, 1 liuto e un flauto dolce. Alla parte strumentale si assoceranno e alterneranno dei brani che io reciterò e che sono estratti da autori che hanno scritto e approfondito appunto il tema delle lacrime, da Lucrezio a Shakespeare, da Marc’Aurelio ad altre voci scientifiche e poetiche dei nostri giorni perché sebbene la musica sia del 1600 noi vogliamo portarla nell’oggi perché questo è un progetto radicato nella contemporaneità. Si parla della storia dell’uomo con le sue vittorie e sconfitte, speranze e dolori, gioie e rimpianti.
Perché è un viaggio “alchemico”?
Perché le lacrime hanno il potere di trasformarci. Così come una ipotetica cellula musicale malinconica nella ripetizione della composizione si trasforma musicalmente e diventa altro, anche le lacrime, seppure di dolore e di sofferenza, generano un cambiamento arrivando a donarci anche una nuova visione di quello stesso dolore o sofferenza. Le lacrime sono come delle entità anfibie che vivono a cavallo tra due mondi. Queste scintille di infinito oscillano tra la gioia e il dolore, la tragedia e la grazia, il trascendente e il mondo reale. Sant’Agostino per esempio ci dice che nessuna cosa è unita alla felicità quanto il pianto perché quando piangiamo, conosciamo e ci conosciamo. Quindi questo viaggio alchemico, che può trasformare quelle lacrime che normalmente leghiamo alla “gravità” della vita in qualcosa che avvicini alla “leggerezza” e alla vera conoscenza della bellezza, avverrà grazie ai suoni, alla musica e alla voce. Tutti questi elementi condurranno lo spettatore verso una nuova consapevolezza regalando l’esperienza di un nuovo sguardo verso la vita.
A dimostrazione del fatto che si piange non solo di dolore ma anche di gioia?
Esatto, perché essendo scintille di infinito sono sia gioia che dolore, tragedia ma anche grazia. E attraverso la musica di Dowland queste lacrime si trasformano in danza cosmica perché la musica arriva lì dove noi fatichiamo ad arrivare. È la scienza che ce lo dice e per me arte e scienza sono una cosa sola, per questo per me la musica è imprescindibile, non solo professionalmente ma nella mia vita. E quando Cristiano Contadin mi ha chiamato per illustrarmi questo progetto ne sono rimasta subito entusiasta anche perché noi conosciamo molto poco la musica barocca che invece è molto interessante perché legata all’effimero. E cosa vuol dire effimero? Significa “che dura un solo giorno” quindi è una parola intrinsecamente connessa al teatro e alla nostra professione che sul palco dura davvero un attimo e poi non esiste più in quella stessa forma. Dunque il teatro è vita e tutto il mondo è teatro perché è la rappresentazione della realtà.
In che modo stai portando avanti la scelta dei testi?
Il filo drammaturgico che sto costruendo passa da autori come Lucrezio o Shakespeare e altri grandi sapienti del nostro passato fino a scrittori o pensatori contemporanei come, per esempio, il fisico Carlo Rovelli. Sono tutti narratori e indagatori dell’animo umano che mai come in questo momento storico possono aiutarci a dare un nuovo senso alla sofferenza che stiamo attraversando. Compito della voce sarà quello di traghettare lo spettatore laddove la musica non arriva.
Cosa significa per te allestire uno spettacolo in questo periodo di chiusura di teatri, di assenza di pubblico e senza sapere quando si andrà effettivamente in scena con la presenza degli spettatori?
In realtà per me non è cambiato molto in questo lungo periodo di sospensione e chiusura dei teatri. Mi manca salire sul palco solo se penso all’abbraccio del pubblico. Di questo ho nostalgia perché quello del pubblico è un feedback importantissimo. Mi ritrovo molto nelle parole che nel 1986 Giorgio Strehler scrive a Jouvet e in cui dice: «Vi scrivo una lettera dopo una prova in cui ho detto delle vostre parole. Le ho dette a me stesso, le ho dette a Giulia che era Claudia, le ho dette ai ragazzi, le ho dette ad un pubblico ancora immaginario. Domani non lo sarà più. Sarà il “pubblico”, vero, l’unico, eterno, uguale pubblico di sempre. Il vostro, il mio e quello di coloro che verranno dopo di me come è stato quello di coloro che verranno dopo di me come è stato quello di coloro che sono venuti prima di noi». Sono parole che sposo appieno perché il teatro è incontro. Per questo ho sfruttato questo periodo per immaginare e creare un futuro possibile che, sono sicura, arriverà molto presto.
Secondo te cosa possono fare gli artisti oggi?
Innanzitutto prepararsi molto per creare una lotta dura, un corpo a corpo, convinti nel profondo del valore di questo strumento che possediamo e che è uno strumento d’arte, uno strumento di qualità della vita, uno strumento di civiltà e di cultura. E poi bisognerebbe continuare a testimoniare, cioè essere testimoni degli accadimenti in modo da sollecitare più persone possibile a venire verso di noi per conoscere questa nostra dimensione che, penso, sia stata un po’ trascurata. Secondo me questo periodo dovrebbe servire come un grande banco di prova per testare la nostra reale passione per questo lavoro. Come artista infine credo che il pubblico necessiti da un lato di una maggiore cura e dall’altro, da parte nostra, di una maggiore preparazione e coscienza del valore di quello che stiamo facendo.
Bisognerebbe allora portare il teatro nelle scuole?
Assolutamente. Il valore educativo del teatro è molto importante. Io insegno ormai da molti anni grazie a Bruce Myers che è stato il mio compagno, amico, maestro. Accanto a lui ho mosso i miei primi passi come docente e grazie a lui e a Peter Brook, che ho avuto il privilegio di avere come mio insegnante, ho scoperto una bellezza e una propensione verso l’insegnamento che ho curato nel corso degli anni accrescendo il mio amore verso i giovani perché è da lì che dobbiamo ripartire. Io sono convinta che ognuno di noi abbia un potenziale, una piccola scintilla di creatività che va curata, nutrita, annaffiata E io mi diverto moltissimo con i ragazzi dai quali ricevo una risposta autentica e attenta che mi riempie di soddisfazione.
Oltre che insegnante ti sei scoperta anche creatrice di gioielli. Motivi di Unione è il nome della tua collezione di preziosi ispirati ai personaggi femminili che hai interpretato a teatro e che nasce nel dietro le quinte nei camerini.
Ho scelto di chiamarlo Motivi di Unione perché credo molto nella circolazione delle cose. A volte oggetti apparentemente lontani trovano un nesso che li collega generando una nuova vita o una nuova forma. Quando lavoravo nella compagnia di Federico Tiezzi durante le pause in camerino ho cominciato a intrecciare fili di lane pregiate con metalli o frammenti di costumi dei miei personaggi. Ho unito ricordi di vecchi personaggi interpretati con pezzi di personaggi del presente perché comunque la sensazione che il teatro sia qualcosa di effimero, come si diceva prima, mi ha sempre affascinato. Mi ero resa conto però che avevo bisogno di concretizzare, di ricordare, di recuperare la memoria, di dare forme nuove di vita a quei processi creativi. E quindi ecco che sono nati dei gioielli, dapprima pensati solo per l’esposizione. Oggi invece sono anche in vendita.
Quest’anno sono vent’anni da Indizi Terrestri, spettacolo sulla poetessa Marina Cvetaeva che segnò il tuo debutto al Piccolo Teatro di Milano: che ricordi hai e soprattutto in che modo ricorderai questi primi vent’anni?
Luca Ronconi nel 2001 mi diede la possibilità di aprire il suo Phoenix, scritto dalla Cvetaeva, con una mia performance appunto su questa poetessa, che amo particolarmente, intitolata Indizi Terrestri e che avevo già portato a Parigi. Quest’anno, a vent’anni dal debutto, con l’Università di Tor Vergata e Bianca Sulpasso, docente di letteratura russa, vogliamo costituire un progetto trasversale sulla figura di Marina Cvetaeva, sul senso dell’esistenza e sulla necessità, oggi, della poesia.
Cos’è per te il teatro?
Il teatro è una forma d’arte che non si consuma. È un’esperienza che può trasformare la qualità della tua vita. Se il teatro è fatto bene è una cura perché crea una trasformazione non solo in chi lo fa ma anche in chi lo fruisce. È uno scambio. Mi viene in mente Louis Jouvet che dice che attraverso il suo stare sul palco l’attore si fa mezzo cioè permette al pubblico di rivelarsi a se stesso. Il teatro è un grande atto d’amore: ci si perde per ritrovarsi.
Che rapporto hai con le lacrime?
Come diceva Sant’Agostino sono un mezzo per conoscermi. L’ultima volta che ho pianto, le mie lacrime sono state sia di dolore che di nuova consapevolezza. Guardandomi allo specchio ho visto tristezza ma anche una nuova me. Mi sono detta: tu comunque ci sei tutta, sei ancora qui! Ho provato grande malinconia ma anche gratitudine per quella nuova me più consapevole, per quella conquista.