Seguire gli ultimi giorni di un festival, in questo caso il Napoli Teatro Festival, è un po’ come presentarsi in ritardo ad una cerimonia, e sentire all’ingresso della chiesa il vociferare della gente, e in quel ronzio di voci dover cercare il proprio posto. La mia avventura comincia come quasi quella di tutti quelli che vengono a seguire questo evento da fuori: in stazione. Mi accoglie una Napoli infuocata, che però non mi priva del desiderio di ripetere il solito gesto di sempre, una sorta di rito di iniziazione alla città. Mi fermo allora nella pasticceria Attanasio e poi attraverso corso Umberto I e quasi svengo dal caldo. Una donna dall’aria affaticata è seduta sui gradini di un palazzo. Fa troppo caldo perfino per mendicare e così le cedo le mie sfogliatelle. Mi ringrazia in francese e ci salutiamo, proseguendo ognuna per la sua strada, o meglio, io continuo dritto mentre lei resta lì e quell’incontro si dissolve nell’afa, come non fosse mai esistito.
Trovo un po’ di pace dal caldo solamente la sera a teatro, seduta nel giardino romantico di Palazzo Reale. Assisto a Luminator Bernocchi, spettacolo interno alla sezione Osservatorio, pensata per dare spazio alle giovani compagnie. Sul palco X e Y, i due protagonisti. Ricorrere alla matematica per nominarli è un bel modo di tracciare la loro evoluzione. La coppia infatti somiglia a una funzione, per il modo in cui le due variabili X e Y sono indipendenti l’una dall’altra ma non possono risolversi da sole. X ha avuto la fortuna di inventare una tastiera, che gli ha assicurato un grande guadagno. Y fa l’infermiera ma il suo vero ruolo sembra essere quello di occuparsi di X, cercare insieme a lui di individuare i punti della linea che hanno percorso insieme per provare così ad affrontare il dolore della perdita di un figlio.
X ha un’identità complessa. Sembrano fondersi in lui due personalità: quella dello scrittore David Foster Wallace e dell’informatico Steve Jobs. Y invece fatica a trovarsi, troppo impegnata forse ad aiutare X. La vediamo sollevata solo quando canta. L’originalità del testo e l’eccellente prova attoriale di Cecilia Lupoli e Marco Montecatino conferiscono a tutto lo spettacolo un ritmo perfetto. Inoltre la scelta di Alberto Mele e Marco Montecatino di non seguire un filo narrativo lineare ma di mescolare come carte i diversi capitoli della vita di X e Y costringe lo spettatore ad una continua altalena emotiva, che lo tiene sempre con il fiato sospeso. Anche i costumi sono ben pensati, poiché esprimono il rapporto tra i due: a forza di stare insieme hanno preso la stessa forma, la stessa geometria, ma i colori e l’essenza sono diversi. Il rosso di Y esprime tutta la sua forza e vivacità, il blu di X invece la sua tendenza ad incupirsi, quello che gli americani definiscono “feeling blue”: un senso di malinconia e tristezza. Il Maschio Angioino sullo sfondo nella sua imponenza sembra quasi una cinta muraria a difesa di due esistenze fragili.
Né palco né luci né sedie distanziate ma solo le strade e i bassi del Rione Sanità. È qui che assisto a TUR FOR’ ‘E VASC, regia di Carlo Geltrude con l’aiuto di Gaetano Migliaccio. L’appuntamento è alle 21 davanti alla Piazzetta San Severo a Capodimonte. Che questo festival sia diverso dagli altri anni a causa dell’emergenza ce ne accorgiamo dai posti ridotti e dai grandi spazi all’aperto, ma in questo caso anche il titolo dello spettacolo ce lo suggerisce. Non più il TUR DE VASC’ come l’anno scorso. I bassi questa volta li vediamo solo da fuori. Veniamo scortati da un gruppo di ragazzi, che ci vengono incontro in motorino a tutta velocità, giocando a ricreare la quotidianità del rione. Confonderli con gli abitanti del luogo non solo è facile ma è anche un avvertimento voluto: a partire da quel momento dobbiamo essere vigili e attenti per poter distinguere tra realtà e finzione. E questa trappola in cui il regista ci fa cadere ha l’intelligenza di smascherare le nostre paure. Così ci affidiamo in fila indiana alle nostre guardie del corpo, che, a detta loro, saranno gli unici amici che avremo durante questo viaggio.
La bolletta è il primo dei quattro testi che ascoltiamo restando in piedi nei bassi. Entriamo nel cortile silenziosamente, attenti a non curiosare nelle case degli altri, come ci è stato raccomandato all’inizio. Ci deve interessare solo la messa in scena, non la vita vera. E così lo spettatore scopre l’inganno del teatro. Un po’ come nel mito platonico della caverna, chi partecipa capisce di aver rivolto finora lo sguardo solo verso l’interno, confondendo gli oggetti reali con le ombre riflesse sulla parete di fondo. Così adesso, nello stesso modo, scopre che l’attore non è ciò che gli hanno fatto credere. La coppia che si affaccia curiosa da una finestra che dà sul cortile infatti non è meno interessante di quella sulla scena. Dovevamo quindi uscire dal teatro per ricordarci il suo rapporto con la vita.
Dopo un intorpidimento dovuto ai tanti mesi di interruzione di ogni attività, siamo qui di nuovo gettati nelle esistenze degli altri. L’idea del regista Carlo Geltrude di creare una connessione tra la vita quotidiana del Rione Sanità, i suoi abitanti, e il teatro, è perfettamente riuscita forse proprio grazie al modo in cui questo lavoro si intreccia con l’esperienza del Nuovo Teatro Sanità, quello che è stato definito da molti “Miracolo alla Sanità”. Nel 2013 un gruppo di giovani professionisti del teatro, guidati dal direttore Mario Gelardi, incontrano i ragazzi del quartiere nella Chiesa di S. Vincenzo, costruendo un teatro, che è diventato nel tempo un vero e proprio riferimento per la comunità. Gelardi è anche l’autore del testo La bolletta, che racconta la mania del gioco del lotto. Il tour si conclude con ‘O Spusalizio, una riscrittura de la Domanda di matrimonio di Čechov. Si tratta in assoluto del più comico dei quattro testi. Qui la miseria è presente come negli altri ma l’ironia del padre ribalta la tragicità della situazione.
Continua, attraverso il Festival, la mia anabasi – movimento di risalita dalla costa verso la parte alta della città, che è iniziata a Palazzo Reale per poi proseguire al Rione Sanità fino a raggiungere la reggia di Capodimonte. Mi lascio alle spalle il mare, i vicoli, il caldo e penso che, se fossimo ad Atene, il giardino verso cui mi sto dirigendo sarebbe l’Acropoli. In una città greca come Napoli non è difficile immaginarlo. Nel cortile centrale della reggia è in scena Caligola di Albert Camus, una lettura interpretata da Vinicio Marchioni, che resta sul proscenio davanti al leggìo per quasi tutto lo spettacolo, mentre l’attrice Milena Mancini sullo sfondo, nel ruolo di Drusilla, dà voce attraverso i movimenti del corpo ai pensieri della mente tormentata di Caligola. Avvolta prima in un materiale leggero, che mostra nella sua duttilità le azioni ancora possibili dell’imperatore. Mano a mano la vediamo contorcersi in tessuti sempre più pesanti, come ad indicare che alla follia di Caligola non c’è più scampo. Presentato come uno studio e quindi ancora in fase di preparazione, questo spettacolo riesce perfettamente a dare corpo alla scrittura sinfonica di Camus, e riuscirebbe ancora meglio in quest’impresa se le voci fuori campo dei personaggi appartenessero a persone diverse, così il coro delle figure che ruotano attorno a Caligola avrebbe tutta la sua dinamicità e potenza scenica.
La mia anabasi trova il suo compimento in un punto ancora più alto della reggia, nella Fagianeria di Capodimonte. Assisto a Il dolore di prima, testo di Jo Lattari, regia di Mario Scandale. Una storia di famiglia, di incomunicabilità, che può essere riassunta dalla frase di Ennio Flaiano: «Oggi ho lasciato la mia famiglia perché ero stanco di sentirmi solo». Queste stesse parole potrebbe pronunciarle l’attrice Valentina Picello, che interpreta la figlia più piccola, che dopo anni dal suo trasferimento al nord, torna a casa per qualche giorno ed è costretta a fare i conti con i fantasmi del passato. Si trova così di fronte a quel “dolore di prima”, da cui non basta allontanarsi per eliminarne le tracce. Se l’idea dello spettacolo è convincente, tuttavia il risultato è artefatto. Gli attori sembrano muoversi con disagio in uno spazio scenico, che riflette la debolezza del testo, che ruota intorno al tema della famiglia, senza coglierne la drammaticità.
Nella mia catabasi – discesa verso il porto – mi attorciglio su me stessa come l’attrice Milena Mancini nei tessuti dei suoi abiti nel Caligola, e ho la sensazione che le immagini di questi giorni, proprio come la pellicola di un film, si riavvolgano su se stesse, cominciando così a farsi strada nella mia memoria. Dopo essermi purificata nell’acropoli della città, attraverso la catarsi del teatro, come Socrate sente il bisogno di scendere al Pireo per tornare all’anima pulsante di Atene, così anch’io torno a respirare l’aria del mare lungo il porto.