Che siano materie vibranti quelle presentate alla diciassettesima edizione del romano Short Theatre è fuor di dubbio, una declinazione del nostro presente per nulla pacificato e al contempo impervio, incuneato – sembrerebbe – in quella ricerca di una misura liminale dove le “narrazioni” si fanno portatrici di archivi scomposti, quasi delle interferenze della memoria che sopraggiungono, tornano come eco nell’oggi per rimarcare una eredità lunga un secolo nonostante in queste ore, nei giorni che stiamo trascorrendo, negli ultimi anni, tutto ci appare in contraddizione con quella eredità di un passato che pensavamo rassicurante. Rassicurante perché si credeva definitivamente archiviato, nei linguaggi della scena come nella vita di tutti i giorni, ovvero (con buona pace dei mestieranti) polvere alla polvere si diceva; seppelliti il secolo cosiddetto breve e tutti gli addentellati delle stantie forme, si pensava di essersi liberati, una volta per tutte, di quell’eredità. Ma invece – ed ecco la contraddizione – quel Novecento nei suoi post dai ritorni carsici, post depotenzianti e allusivi, viene recuperato in quanto materia utile (che paradosso) per disinnescare, ancora una volta, le aporie di una condizione asfittica del dire e dell’immaginare attraverso l’esercizio artistico, attraverso i suoi presupposti o negazioni, per mezzo dei suoi vuoti o prove di negoziazione. Il Novecento è ancora una volta uno strumento utile per decodificare il mondo. Materia vibrante, dunque, per la capacità di osare tra le differenze una decompressione sempre rimandata così in vasta scala in un contesto persino moltiplicato di luoghi, come per far depositare non soltanto nell’atto artistico, nella sua “esecuzione”, una certa idea editoriale (visual identity è il termine riportato nei materiali documentativi del festival), ma una vera e propria fenomenologia del pensiero eterodosso rispetto al machismo imperante e alla cultura fascista che trasuda da ogni dove, nella direzione voluta da Piersandra Di Matteo (così interpretiamo), che oggi avverte più urgente che mai ribadire nella sua dimensione spaziante, rivelando di fatto le tante chiavi d’indagine di Short, a partire da un approccio decoloniale. Nella latenza di un sotteso fermento artistico affiora il “bisogno” di tenere assieme ogni frazione di un vasto territorio performativo permeato di fughe in avanti e ricorsi storici. È chiaro che il Novecento al quale si allude non è quello della tradizione assiepata sul crinale di un autoritarismo sempre aggiornato del “museo”, ma delle molteplici e sghembe reinvenzioni della tradizione che permettono di far dialogare, ad esempio, i processi condivisi di Fiorenza Menni con gli incunaboli coreografici di Chiara Bersani. Un Novecento che non abbiamo mai lasciato alle spalle ma anzi prorompente si ripresenta con tutta la sua violenta appendice didascalica e di fronte al quale bisogna ripensare il concetto stesso di spettacolo, alle sue opportunità oltre la sfera della concupiscenza dello spettatore. In questo diaframma tra memoria e presente il lavoro di Katerina Andreou Mourn Baby Mourn marca uno spazio d’azione dentro un immaginario apparentemente consumato, laddove questo suo recupero novecentesco al contrario riesce ad “incistare” (parola risuonante proprio per la Di Matteo) sul corpo agìto un vocabolario intimo e politico.
Non sono più le trascrizioni corporee di un percorso sentimentale alla Claudia Dias, ma veri intercalari di un discorso balbuziente con l’oblio. Lo spazio (il Mattatoio) contiene un moncone di muro che la performer continuamente riassesta come per smontare e ripensare ciò che si è perduto e dove le parole proiettate in quel sillabario fonetico trascritto assurgono a parti del corpo stesso, simbolicamente memento e orazione, urlo e deflagrazione quanto le sue posture, quei passaggi coreografici che si innestano come materia tra le materie. Ancora un lavoro estroflesso, tutto riverso all’esterno, ma indice dello spossessamento di una intimità dolente, è l’OtellO di Kinkaleri, un fraseggio muscolare, per certi versi una forzatura sentimentale in cui il corpo è costretto a cedere come nel training degli archivi della storia del teatro, rivelando l’anima di quelle figure. I performer si ricorrono lungo lo spazio scenico, costruiscono partiture fisiche come alfabeti pulsionali, imbastiscono quadri con istantanee fisiche che riproducono alcune lettere, corpo letterario e corpo letterale (immaginario che li accomuna ad altri artisti di questo tempo), quasi a chiosare il testo shakespeariano detto in quel convulso movimento respirato, danzato della parola, sudato e rimasticato come brandelli di cibo che si fanno racconto, quanto lo è il groviglio di corpi denudati e rivestiti frettolosamente, quanto il taglio di ombre che assorbe la luce, quanto il senso di un pretesto testuale qui nel perdurare di una tragedia della mutevolezza a partire dal loro stesso archetipo Alcuni giorni sono migliori di altri. L’unica cosa che non muterà mai è il fatto che tutto muta, in continuazione (I Ching), e lo spostamento all’interno della drammaturgia shakespeariana affrontato dal gruppo toscano sottolinea proprio questa incessante ricerca di una verità della scrittura del corpo, non in opposizione al testo ma in traduzione di esso.
Il focus su Gisèle Vienne sta dentro questa misura di scandaglio del “senso” nella direzione di un festival in movimento. La cornice dello spettacolo presentato al Teatro Argentina (una delle tante location coinvolte) Crowd evidenzia proprio l’approccio tensivo, sempre in allerta dei corpi. Un non-racconto (ma di racconto comunque parliamo) lì a condividere con lo spettatore una postura prima di tutto, uno stare smarrente, un pensarsi al presente (anche in quella lacerante dimensione esistenziale alla Danio Manfredini) che del presente ha la condizione proiettiva di un primitivismo dei segni. Artista regista coreografa burattinaia franco-austriaca la descrive la sua biografia, e ne vediamo tutti gli accenti e le potenzialità in questo lavoro complesso ancorché semplice, in definitiva contemporaneo con quel certo retrogusto arcaico, fuori dalla portata degli ordigni novecenteschi che con questi, però, scende a patti. L’uso dello spazio come terreno di scontro, una dissolvenza da slow motion che richiama interferenze cinetiche in quella epilessia del movimento, la fine dei tempi trascolorata in figure quasi sul bordo della nullificazione, automatismi di corpi in trance come degli zombie, i non-morti di George A. Romero, Crowd è per questo la percezione del sacro da ricercare, in un rituale definitivamente desacralizzato, è l’orrore dell’oggi non più mistificato, è l’attesa di un non-ritorno nell’eterno ritorno della morte.
Orgiastico come lo possono essere i rave party di corpi in fuga e religiosissimo nel “descrivere” una generazione che resiste come può. Il nutrito gruppo di performer che gestiscono il tempo dello spettacolo sono nella parte con disinvolta credibilità, la selezione musicale immette adrenalina in una scena dove tutto sta marcendo tra plastica, rifiuti e sacchetti di patatine da poco consumate; la morte incombe o forse ci mostra la versione di vita alla quale ci si dovrà abituare nel silenzio assordante di una danza deprivata. E parla Crowd, ancora un racconto “involontario” del nostro stare in attesa. Anche Crangon Crangon di Daria Greco (con una vorticosa Valentina Sansone in scena e di cui abbiamo già scritto su queste pagine nella primigenia versione di studio) veste una propria tensione espressiva di un’attesa rimandata, si direbbe “inversa” o ancor meglio “riversa” in una scomposizione percettiva qui richiamata per il riverbero ossessivo del movimento della performer la quale articola un processo coreografico à rebours; una sfida, un atto di resistenza, un non-ritorno, scintilla (ulteriore) di un corpo in allerta, contro il dogma dell’intuizione sensibile di kantiana memoria.
Infine, in questo seppur parziale resoconto di una complessità della quale Short Theatre si è fatto portatore, è interessante ulteriormente lo spostamento avvertito nel nuovo progetto della compagnia MK. Attraversando ormai da più di un decennio la perpendicolare della critica al consumo dello sguardo in primis, Michele Di Stefano ha lasciato al disegno coreografico la volontà di disseminare qua e là nei diversi lavori di questo lungo periodo luoghi comuni sia nei significati che nel comportamento scenico, in opposizione forse ai presupposti della bellezza codificata producendo a sua volta comunque un’altra idea di bellezza, depotenziata, aritmica, inversa che cammina a ridosso del respiro teatrale. Oggi in Sfera – visto al Teatro India – si riassumono tutta una serie di precetti linguistici praticati, anzi se ne amplificano le diagonali, per giungere a uno spazio che si fa parola. Lo spettacolo ha una sua (diciamo così) prima parte che lascia intravedere in quella essenzialità asettica (il virtuosismo gestuale che gli è proprio) la sbavatura, il fuori di questo troppo dentro la coreografia, un’altra parte insomma che giunge e coglie di sorpresa perché l’atto del prendere parola, il dire un pensiero (finanche frammentato, depauperato dal sonoro, percepito come ritorno del gesto) è potente e depistante. Ogni performer “cede” a sé stesso (quanto il corpo ha una partitura “impropria”), si rivolge al pubblico con una “concretezza” fonetica inusuale e si chiude Sfera nell’afflato di un’attesa, ancora un’attesa, di un tempo che dovrà farsi carico di questa responsabilità.
Short Theatre, Roma, dal 6 al 18 settembre 2022.