Adagiata su una poltrona avvolgente, il corpo minuto, Elena dorme in penombra. Intorno a lei, tendaggi bianchi dal sapore antico, un catino di metallo, bottiglie, bicchieri, uno specchio impolverato. Nulla lascia trapelare i fasti di un tempo: la sfolgorante bellezza, la gloria, la ricchezza, gli amori, i natali divini, la potenza eternatrice di quel Mito che l’ha trasformata da regina di Sparta a simbolo e archetipo universali. Eppure, questa Elena qui, che vediamo silenziosa in fondo alla scena, è proprio lei, la donna dalle “bianche braccia” per la quale si è combattuta la guerra di Troia. È lei oggi. È lei vecchia. È lei in viaggio tra i millenni e le epoche della Storia umana. È lei sulle macerie delle guerre di sempre.
Proprio Elena (῾Ελένη) si intitola, infatti, il denso poema in forma drammatica che il grande poeta greco Ghiannis Ritsos (1909-1990) scrisse nel 1970, durante la prigionia nel campo di concentramento di Karlòvasi cui l’aveva condannato il regime dei colonnelli, e che Elena Arvigo, interprete e regista, ha scelto di trasporre in un monologo dove ancora una volta dà voce alla dolente ribellione di una donna contro l’insensatezza del male, del sopruso, della violenza, delle armi.
Lo spettacolo, inserito nel più ampio progetto Le imperdonabili e in cartellone al Teatro Torlonia nelle sere scorse, si pone dunque in perfetta continuità con i precedenti Il dolore: diari della guerra (da Marguerite Duras e alcune pagine di Peter Weiss) e I monologhi dell’atomica (tratto da Preghiera per Černobyl di Svetlana Aleksievič e Racconti dell’atomica di Kyōko Hayashi ): affondi rituali nella parola di un femminile che, in forme diverse, si fa grido materno di pace e resilienza, ma anche di importanti sfide interpretative affrontate sempre con estreme sensibilità e consapevolezza. Sfide talmente vicine tra loro per tematiche e spessore poetico da sembrare quasi un unico, lungo viaggio artistico, al quale volentieri aggiungiamo le belle prove regalateci in Non domandarmi di me, Marta mia! (su testo di Katia Ippaso), 4.48 Psychosis, il reading La metafisica della bellezza – lettere dalle case chiuse.
È tuttavia con Il dolore che questo Elena – dove Ritsos immagina che la protagonista parli ad una presenza silente – sembra mostrare una particolare affinità. Anche qui troviamo una casa, arredata in stile vagamente liberty, che ospita un’attesa: non più un uomo ma il trascorrere stesso del tempo. Anche qui una donna ricapitola i tremori di tutte le donne. Anche qui la memoria diventa sostanza vitale. Anche qui la polemica antibellicista fa da sfondo al racconto. Anche qui aleggia un’atmosfera crepuscolare, decadente.
Nel buio ovattato dell’incipit (luci di Luigi Chiaromonte e della stessa Arvigo), mentre Elena dorme, tra i tendaggi chiari si muove una figura femminile simile ad un’ombra: si tratta della cantante e musicista Monica Santoro che, nel corso della pièce, assumerà la fisionomia scenica di un’ancella, un alter ego discreto, una proiezione immaginifica, facendosi anche carico di alcuni inserti musicali. La sentiamo, ad esempio, cantare la celebre aria Casta diva tratta dalla Norma di Vincenzo Bellini, poi sparisce. Ed ecco che Elena si sveglia, si alza, fa pipì, si sistema i capelli. L’intero suo aspetto – lungo abito nero coperto da uno scialle, guanti di lana, calze pesanti – evoca una “in-stabilità” sofferta ma disinvolta. Il passo è lento, malinconico. Una sigaretta tira l’altra. Un bicchiere tira l’altro. Una certa compassata cupezza emana dal suo modo di abitare quello spazio polveroso di cui l’attrice cura anche scene e costumi insieme con Maria Alessandra Giuri.
Gli occhi, però, sono quanto mai vivi, lucidi, espressivi, e arrivano vigorosi al pubblico ben prima delle parole. Prima di questo ondeggiante viaggio nel sogno e nei ricordi cui l’intensa interprete riserva timbri, toni, ritmi sempre diversi, tanto che la voce sembra compenetrarsi nei versi dell’autore con naturale – ma ricercata – musicalità e, al netto di qualche passaggio forse troppo enfatico, l’effetto è quello di un delicato corpo a corpo con il linguaggio. Una ri-scrittura personale. Un combattimento lirico pieno di immagini e nomi noti (Menelao, Achille, Paride), di luoghi mitici, di eroi e defunti, dove a momenti altisonanti si alternano confessioni sommesse e quotidiane, quasi sbriciolate in un dire-esserci concreto eppure colmo di nostalgia: «Sì, sì – sono io. Siediti un po’. Non viene più nessuno. Sto quasi /per scordarmi le parole. E del resto non servono. Credo si avvicini l’estate; si muovono diversamente le tende – vogliono dire qualcosa /– sciocchezze. Una di esse /è già uscita fuori dalla finestra, tira, vuole rompere gli anelli, /fuggire sugli alberi – forse cerca addirittura di trascinare / altrove tutta la casa – ma la casa resiste con tutti i suoi angoli /e assieme ad essa anch’io, benché mi senta, da mesi, affrancata /dai miei morti e da me stessa; e questa mia resistenza, inconcepibile, involontaria, estranea, è l’unica cosa che ho – (…)».
La resistenza è, d’altronde, il cuore di questo lavoro, sorretto da una regia sostanzialmente cucita intorno alla parola e ai versi nella quale, sebbene non manchino alcune note eccessivamente didascaliche, le variazioni cromatiche delle luci e la vicinanza dell’attrice al pubblico rivestono un ruolo essenziale. Una resistenza che ci ricorda grandi tragedie classiche quali Ecuba, Le Troiane: le trincee silenziose e dolenti delle donne. Una resistenza che con-tiene il passato ma che, allo stesso tempo, ne mostra i controsensi e le insensatezze: «A poco a poco le cose hanno perso senso, si sono svuotate; /d’altronde ebbero mai alcun senso? – Flaccide, vuote; /noi le riempivamo di paglia e crusca perché assumessero/ forma /e consistenza, solidità e fermezza – i tavoli, le sedie, / i letti su cui giacevamo, le parole; – sempre vuote (…)».
Una resistenza che, però, è anche azione, rivolta, presa di coscienza: «Ah, sì, quante battaglie, eroismi, ambizioni, superbie senza senso, /sacrifici e sconfitte e sconfitte, e altre battaglie, per cose che /ormai / erano state decise da altri in nostra assenza. (…)». Questa resistenza, ribadita esplicitamente nei magnifici versi che recitano: «Eppure – chissà – / là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia / la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo / (…)», rende oggi la pièce attualissima. E la riconnette non solo con lo spirito di rivendicazione politica con cui l’autore la concepì, inserendola insieme ad altri monologhi ispirati a personaggi mitici nella raccolta Quarta dimensione (Τέταρτη διάσταση), edita nel 1985 e tradotta in italiano da Nicola Crocetti, ma facendone cassa di risonanza dei nostri giorni martoriati, delle nostre guerre, delle nostre madri, mogli, sorelle in attesa dei loro uomini al fronte.
Non a caso, d’altronde, la stessa Arvigo, dopo l’epilogo e gli applausi, ci tiene a sottolineare che Elena è dedicato a tutti i popoli sottomessi e sofferenti; in particolare, a quello palestinese. Perché la poesia non ha confini geografici o temporali. E perché il teatro, da sempre, è il luogo migliore da cui guardare il mondo e la sua vacillante umanità.
Elena
di Ghiannis Ritsos
traduzione Nicola Crocetti
regia Elena Arvigo
con Elena Arvigo
e Monica Santoro
scene e costumi Elena Arvigo in collaborazione con Maria Alessandra Giuri
disegno luci Luigi Chiaromonte e Elena Arvigo
datori luci Victoria de Campora e Andrea Iacopino
si ringraziano Francesco Biagetti, Ariel Bertoldo, Mariangela Vitale, Mery Salvati e Rossana Ferrari
produzione Teatro OUT OFF con Compagnia Elena Arvigo (Associazione Santa Rita & Jack Teatro).
Teatro Torlonia, Roma, dal 30 gennaio al 2 febbraio 2025.