Didier Eribon tra autobiografismo e saggio sociologico di Paolo Ruffini

«La mia terza massima era di (…) cambiare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo; e, in generale, di abituarmi a credere che non c’è nulla che sia interamente in nostro possesso se non i nostri pensieri, sicché quando abbiamo fatto del nostro meglio, rispetto alle cose fuori di noi, tutto quello che non ci riesce è per noi assolutamente impossibile». È un passaggio di René Descartes che il filosofo-scrittore Didier Eribon riporta nel suo romanzo-saggio Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo (L’orma editore, traduzione di Annalisa Romani, Roma 2024, p. 23) di recente pubblicazione, uno dei tanti inserti in questo libro fatto di materie e che sfugge alle definizioni, lo significano anzi al di là della collocazione letteraria. Per comodità abbiamo usato il termine romanzo-saggio ma invero è molto altro ancora; come nei precedenti Ritorno a Reims, oggetto di culto anche fuori dagli habitué costruito come una scrittura multipla che si guarda declinando un compassionevole (e meraviglioso) viaggio interiore descrivendo in ambito saggistico un tempo in trasformazione, oppure come il monumentale e raffinato Michel Foucault, biografia esistenziale del grande filosofo francese o, sempre come l’espressionista Riflessioni sulla questione gay, che ha scoperchiato l’assunto storico incarnandone l’esperienza nel rivoltarne i termini di analisi tra quella antropologia sociale che muove dalle urgenze del proprio tempo e una certa impudicizia intellettuale, di cui è felicemente portatore, questa ultima fatica letteraria intorno alla storia di sé, di sua madre e del suo rapporto con la fine di lei (e più in generale con il concetto di fine, di morte, di attraversamento del dolore e di compensazione del tempo), è uno straordinario riordino del pensiero nel sistema occidentale che sembra far sedimentare una certa caducità dei valori, ormai esclusivamente asserviti al mercato nella prospettiva inarrestabile di un’infausta aspirazione borghese che ottunde tutti e tutte e non riesce più nemmeno a proteggersi da un destino nichilista. Non di un nichilismo rivoluzionario, anarchico e fuori dagli schemi, magari, ma banalmente un lascito archetipale che mette nella condizione di perire nell’imperizia le persone di una classe sociale in disequilibrio nella Francia sempre più spostata a destra (culturalmente a destra oltreché politicamente), le stesse che non hanno più  la capacità di prendere coscienza (quella ch’era la coscienza di classe e aveva rivoluzionato i rapporti di forza tra sindacato e proprietà) di fronte al potere, sia esso istituzionale o locale, di piccolo cabotaggio o privato, dove sono ancora – come nelle storie di Victor Hugo – gli ultimi lì a cercare una fenditura per avere respiro, avere fiato anche maldestramente, provare almeno ad avere parola, esistere benché relegati nella miseria di una economia sociale davvero fragile, nell’abbandono di regole disegnate per loro storicamente come gulag morali. Questa piccola, piccolissima borghesia si sostanzia nel Nord-Est della Francia come ovunque di dosi massicce di televisione, di aspirazioni frustate da matrimoni abortiti, machismi o disamori che relegano le donne nello stesso posto di sempre; non siamo nella Parigi dove Eribon e il suo compagno sono attivisti di battaglie sociali e per i diritti civili, dove il giovane Édouard Louis – loro amico – riesce a incunearsi in quel dittico tra romanzo di formazione e atto liberatorio una volta fuggito da un côté familiare asfissiante e altrettanto machista e razzista, qui nella stanza di una casa di cura il tempo è il mostro contro cui combattere, oltre la vecchiezza. Una vecchiezza descritta con lieve timore, sostanzialmente impietosa, una decadenza che lo riflette perché lui stesso si guarda in un tempo e in una società altrettanto impietosa. E Didier Eribon lo fa dall’interno, il suo racconto non è quello del borghese ch’è altro dalla cosa osservata, ma antropologo della propria vita, speculatore del quotidiano sociale che conosce non descrive né redige una distanza tra sé e il contesto ma invece è parte del discorso, ne cosce il gergo e le sfumature, per provenienza, è egli stesso soggetto narrante e oggetto riflettente di quella narrazione mettendo in moto un continuo spostamento, una sollecitudine a un altrove da cercare distanziandosi con nettezza dall’idea di opera al nouveau réalisme. Il distacco dalla madre è il tassello di un processo introspettivo che recupera il delta della fine del padre, quando dice: «Mi ero pentito di non aver provato a parlare con mio padre prima che fosse tardi. Ma tra lui e me, in realtà, è sempre stato troppo tardi. Quale momento preciso, quale occasione mancata avrebbe potuto essere oggetto di rimpianto? L’abisso che ci separava non era dovuto a una rottura, ma a un distacco crescente iniziato molto presto e diventato, in modo assai rapido, pressoché completo e senza possibilità di ritorno (…): andavo a trovarla con una certa regolarità dopo il ricovero di lui in una clinica per malati di Alzheimer e ancora di più dopo la sua morte» (Ibidem, p. 127). La sua scrittura è interiorizzata e al contempo paesaggistica, intima e lucida dove il racconto della madre, con una irrorazione letteraria ancor più superba che in Ritorno a Reims, lo fa con i suoi strumenti di filosofo e, ormai, di grande scrittore che affina le latitudini alla Annie Ernaux con quella forma di ricerca ch’è l’anamnesi delle costanti nascoste cara a Pierre Bourdieu, che significa proprio reminiscenza, recupero percettivo. In questo senso, Bourdieu ci chiama alla conoscenza e al riconoscimento della parte profonda, nascosta, dei meccanismi socio-culturali in un processo di soggettivazione politica, enumerando descrizioni che si affastellano poeticamente a rigorismi sociologici e a critiche ai sistemi gestionali che governano le persone in condizioni difficili (ospedali, case di cura, carceri), non liberate dal giogo della malattia, in quella condizione che spinge anche l’autore a trattenere uno sguardo indotto, stigmatizzante. Scrive Eribon: «Ma l’accorato appello di mia madre mi spinge a tornare sui miei passi: il sentimento della “vergogna”, intesa come effetto del disagio e di malessere indotto dallo sguardo degli altri e, ancora più profondamente, come prigionia nel proprio essere così come è definito dall’altro, coincide inevitabilmente con l’idea di “struttura ontologica” non appena viene messo in rapporto alla reclusione nel tempo e nel luogo della vecchiaia e del declino fisico» (Ibidem, p. 71.). Non lo abbiamo ancora detto, diciamolo allora: Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo è di una bellezza e di un dolore esorbitanti, con una scrittura pronta sempre a disinnescare l’ovvio che si annida nella consecutio temporum della narrazione, tra inserti (si diceva) e descrizioni, tra creazione di un mondo e sfaldamento dello stesso (il rapporto con i fratelli, i ricordi d’infanzia, la morte del padre, le origini operaie e la fuga da quella biografia ancorata per destino, l’incapacità o la volontà di non assecondare una madre malata). Didier Eribon torna “sul luogo del delitto” dopo Ritorno a Reims ma dalla parte opposta, dove l’auto-analisi si rivela teoria del soggetto e scassinamento dei meccanismi che hanno generato quei «verdetti sociali», per dirla con Foucault, che destabilizzano le condizioni e i sentimenti, e che qui sembrano cercare una riappacificazione col passato avendo gli strumenti di rilettura critica nel rigetto di un patriarcato maschilista e, ovviamente, eterosessuale. C’è la clinica, le assenze nella dimenticanza, nella perdita della memoria, l’aggressività di una donna invischiata anche in una storia d’amore in un corteggiamento fuori tempo, questa forse la storia d’amore che sente di vivere appieno, avendo vissuto un matrimonio nella languidezza dei sentimenti e nell’indifferenza. C’è la morte. Sempre carpendo una delle citazioni nel libro, in questo caso di Malraux, è nella morte la responsabilità di chi rimane quando dice: «La tragedia della morte sta in questo, che trasforma la vita in destino» (Ibidem, p. 182).

Didier Eribon, Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo, traduzione di Annalisa Romani, L’orma editore, Roma, 2024, pp. 252, euro 21,00.