Architecture è l’ultimo lavoro del regista francese Pascal Rambert. Dopo il debutto al Festival d’Avignon, lo spettacolo arriva finalmente a Parigi.
Con questo progetto Rambert realizza quello che desiderava da tempo: riunire in una sola pièce la maggior parte degli attori che hanno segnato la sua carriera di regista. Quando nel 2014 aveva messo in scena Répétition, con alcuni di loro, cominciava a riflettere su questa possibilità. Ma la scintilla che ha dato inizio a questa avventura è senza dubbio l’attore Jacques Weber. È intorno al suo personaggio che lo spettacolo è stato scritto e realizzato.
Assistere ad Architecture è come osservare la lenta distruzione di una cattedrale gotica.
Dapprima ammiriamo la monumentalità della facciata e il rosone che si staglia in alto simile a un caleidoscopio. Gli attori ci accolgono in abito bianco e, proprio come i vetri del rosone, si dispongono in cerchio. Sono quelli che Rambert definisce dei momenti “accord”, in cui all’improvviso tutti si riuniscono, danzando e cantando. L’idea di costruire questi istanti e di inserirli come delle interruzioni tra una scena e l’altra nasce in lui durante la realizzazione di Nos Parents.
Gli abiti bianchi degli attori vengono proiettati sulle pareti rosso pompeiano del Théâtre des Bouffes du Nord quasi a formare un affresco. La musica di un violino si interrompe per lasciare il posto alla parola. Il linguaggio separa quel primo momento quasi onirico dal resto. Il padre si scaglia ferocemente contro il figlio, accusandolo di essere la vergogna dell’intera famiglia, che nel frattempo è rimasta sullo sfondo ad ascoltare. È in questo momento che la prima pietra della cattedrale comincia a tremare. Sì, perché quello che Rambert vuole raccontare è l’illusione della struttura. Non siamo altro che selvaggi che vivono in un mondo organizzato dal linguaggio, dalla politica, dall’arte, dalla società e dai legami di famiglia.
Architecture è ambientato in un periodo preciso della storia, che ha inizio nel 1911 e si conclude trent’anni più tardi. Il passaggio del tempo è reso attraverso l’evoluzione degli abiti e del design. All’inizio la casa è arredata in stile Biedermeier e verrà poi trasformata attraverso l’avvento del Bauhaus. Durante quest’arco di tempo, il pilastro su cui si regge la fragile struttura famigliare è la figura del padre, interpretato da Jacques Weber. Si tratta di un grande architetto austro-ungarico, che costruisce edifici ovunque, nell’Impero e in Europa.
Padre ingombrante, che soffoca la personalità dei figli, che in sua presenza non riescono a esprimersi. La sua violenza genera in loro un vero e proprio terrore, che si esprime attraverso la balbuzie in alcuni di loro. Ciò che è terribile è che di questo difetto il padre si prende gioco, ridicolizzandoli. Cosa accade se le navate della cattedrale gotica si rivelano imponenti ma fragili?
È questo quello che Rambert riesce a mostrare: il peso della violenza che comprime la struttura.
Se il principe Miškin ne l’Idiota di Dostoevskij afferma che la bellezza salverà il mondo, qui il padre dirà: «Est-ce que on peut parler un moment de la beauté dans ce mond horrible?».
Il linguaggio arriva ancora a sostenere il peso della bellezza lì dove la guerra e la violenza hanno distrutto tutto?
Che sia proprio lui, accusato dai figli di essere violento, a evocare la bellezza, non è di certo un caso. Forse Rambert vuole dirci che non possiamo ricercare il bello mentre generiamo odio.
Architecture
di e regia Pascal Rambert
con Emmanuelle Béart, Audrey Bonnet, Anne Brochet, Marie-Sophie Ferdane, Arthur Nauzyciel, Stanislas Nordey, Denis Podalydès, Pascal Rénéric, Laurent Poitrenaux, Jacques Weber
luci Yves Godin
costumi Anaïs Romand
musiche Alexandre Meyer
suono Chloé Levoy.
Théâtre des Bouffes du Nord, Parigi, dal 6 al 22 dicembre 2019.