«Un nuovo oggetto fa la sua apparizione nel paesaggio immaginario del Rinascimento; ben presto occuperà in esso un ruolo privilegiato: è la nave dei folli, strano battello ubriaco che fila fra i fiumi della Renania e i canali fiamminghi». Michel Foucault apre così Storia della follia nell’età classica, sua tesi di dottorato e sua prima opera, in cui seguendo il metodo di quella che lui stesso ha definito un’archeologia del sapere, rintraccia e ricostruisce le radici del funzionamento della società occidentale a partire dai meccanismi di esclusione e criminalizzazione di ogni forma di diversità e di devianza. La Narrenschiff, ovvero il battello che trasporta i folli per allontanarli dalle città, non è solo l’immagine rinascimentale raffigurata da Bosch nel quadro intitolato, appunto, Nave dei folli, ma è a tutti gli effetti espressione reale del modo in cui la società ha da sempre percepito e rifiutato la malattia mentale. Prima ancora che venissero istituiti luoghi per l’internamento, nel Rinascimento si ricorse all’allontanamento dei “pazzi” per emarginarli ed escluderli dagli spazi della vita comune. Pazzia. Emarginazione. Esclusione. Temi che ritornano in Dopo la bora che ha debuttato il 13 aprile a Fortezza Est, realtà a Roma sempre più importante nel dare spazio a compagnie emergenti e a nuove forme di drammaturgia. L’autrice del testo, Francesca Miranda Rossi, attraverso una scrittura tanto scarna quanto poetica ed evocativa, fa salire anche noi a bordo di quella nave, trasportandoci a Trieste, al Parco San Giovanni, ex ospedale psichiatrico.
Tra quelle mura, a partire dall’estate del 1971, cominciò una vera e propria rivoluzione grazie alla nuova direzione di Franco Basaglia, che trasformò per sempre quel luogo. In Dopo la bora l’autrice sceglie di non partire dall’arrivo del Dottor F, ma concentra la narrazione sugli ultimi mesi dei manicomi prima della chiusura effettiva con la legge Basaglia del 1978. Quello a cui assistiamo, quindi, è il risultato finale di un cambiamento epocale, di un modo diverso di concepire la malattia mentale, non più come corpo estraneo da allontanare su un battello né da isolare in una struttura ma degno di dignità e attenzione. Per Basaglia infatti gli internati, prima di essere dei malati, sono degli esclusi sociali. Allora è da questa esclusione che si deve ripartire se si vuole portare avanti un cambiamento. A restituirci gli effetti di questa trasformazione fuori e dentro le mura del San Giovanni, sono le voci di diversi personaggi, tra cui quello di Antonia, interpretata in maniera pura, essenziale e naturale, senza nessun tipo di inutile eccesso, da Giulia Chiaramonte, che dopo aver ricevuto la notizia che suo marito ritornerà a casa dopo vent’anni di internamento, non sa più comportarsi, come se ad attenderla fosse non più l’uomo che ha sposato ma un estraneo. Nel suo vestito a fiori, muovendosi avanti e indietro nervosamente sulla scena, ripete ossessivamente ad alta voce gli ingredienti della torta di mele: «600 grammi di farina, 2 uova, 500 millilitri di latte e dieci mele. Mi sono dimenticata la ricetta?». Lì dove si trova adesso, suo marito Martino, non la mangia più e avrà persino dimenticato il sapore della cannella. Ecco perché Antonia, mentre mescola gli ingredienti, decide di non metterla. La cannella è l’espressione della felicità di un passato che non può ritornare così come Antonia è l’espressione di un’attesa, quella di chi ha vissuto dal di fuori il dramma dell’internamento nei manicomi.
Alla sua voce, come in uno sciame, si aggiungono quelle di altre figure che come lei vivono e assistono in prima persona a questa fase storica di transizione che, sempre restando nella prospettiva di Foucault di tracciare una storia della follia, segna un passaggio decisivo nel modo della società di concepire la malattia mentale.
Ci sono Giovanni e Tinta, ricoverati da anni al manicomio di Trieste, talmente radicati ormai in quel luogo da non riuscire a immaginare la loro esistenza altrove. Ma, poi, ce l’hanno ancora un’esistenza? O sono diventati a tutti gli effetti, prima ancora di morire, fantasmi che si aggirano per quelle stanze? Sembra questa la domanda che Dopo la bora insistentemente rivolge allo spettatore. I movimenti scenici degli attori, guidati dallo sguardo della regista Federica Dordei, riescono a restituire la fissità e la rigidità di un corpo che è preda di una mente che li tiene prigionieri, ancor prima di essere a loro volta internati. A dare vita al timido Giovanni è Nicholas Andreoli, capace di ricreare attraverso la mimica e i movimenti del proprio corpo il disagio di questo personaggio dalla postura sempre chiusa in sé stessa, come a volersi difendere e proteggere da un mondo che tanto lo spaventa: alza spesso le spalle ed evita il contatto visivo, sembra quasi volersi liberare del corpo che abita, di cui si vergogna. Insieme a lui c’è Tinta. Insieme, come Estragone e Vladimiro, fantasticano su ciò che avverrà, su questa mitica e imminente apertura dei cancelli del San Giovanni che sembra a tutti tanto attesa quanto lo è per i personaggi di Beckett l’arrivo di Godot. Tinta, interpretata da Isabella Delle Monache, ha un’energia completamente diversa da quella di Giovanni, più aperta e curiosa verso l’esterno. Solo la sua mano la tradisce, la tiene sempre piegata come un uncino, come se in quel punto del corpo concentrasse tutto il suo malessere. Quella stessa mano diventa, per una bella intuizione registica, la testa di Marco Cavallo, il cavallo di legno che Basaglia fece costruire ai pazienti e che simbolicamente portò fuori dai cancelli insieme a loro. Giovanni e Tinta sono uniti dalla stessa condizione, ma il loro destino non è lo stesso. Giovanni sta per uscire. Tinta invece deve restare ancora, proprio lei che sembra più pronta di lui a scoprire il mondo lì fuori, lei che più che spaventata ne è incuriosita, si sente abbandonata dal suo amico che sta per lasciarla. In quest’attesa Giovanni e Tinta parlano di tutto, di come reagiranno una volta lì fuori, del Paradiso che Giovanni immagina come un campo di cipolle e di un futuro che sembrava impossibile e che ora, invece, li attende lì fuori esattamente come Martino da vent’anni aspetta la sua torta di mele.
Dopo la bora
di Francesca Miranda Rossi
regia Federica Dordei
con Nicholas Andreoli, Giulia Chiaramonte, Isabella Delle Monache
realizzazione scene Cristina Magliocchetti.
Fortezza Est, Roma, dal 13 al 15 aprile 2023.