Doppia coppia Fuori Programma di Paolo Ruffini

Foto di Giuseppe Follacchio

Sono lontani gli anni in cui il termine teatro-danza definiva quella linea di demarcazione, almeno fino ai primi anni Duemila, tra il concetto tutto interno all’ortodossia coreografica (anche sbilenca) e una prassi più “silvana”, per certi versi più arcaica e umanissima, quello che oggi invece – semmai di una linea di demarcazione avessimo bisogno – è più difficile rintracciarne le intenzioni, laddove meno dichiarate sono le appartenenze (per via anche di infiniti rivoli o traghettamenti carsici che alimentano il senso del fare nel nostro presente) in un panorama definitivamente internazionale orientato alla disseminazione degli indizi, alla liquefazione dei presupposti, al sovvertimento dei generi. Il teatro-danza definiva i corpi nella cultura ma, soprattutto, nell’immaginario contemporaneo, modificando la percezione e codificando un modo di comporre la scena diventato linguaggio, tanto che gliene riconosciamo una tradizione. Ha prodotto tali combustioni a perdere, liberato poetiche e sensibilità diversissime, ha disinnescato schematismi per cui si sono moltiplicati i segni e i saperi di quell’originaria ispirazione, dando significato a esperienze artistiche (anche in contesti paradossalmente distanti) dove l’approccio personale e quello concettuale convivevano. Rimane di quell’esperienza una forma recuperata di espressionismo d’indagine (che fa del performer una persona), forse, e una svincolata (dalle matrici) possibilità di tenere assieme opposti paralleli, materialità e rarefazione linguistica, corpo e segno. Non lo chiamiamo ormai teatro-danza ma lo intravediamo rigenerato e rinominato in più contesti creativi che non si dichiarano tali, ovvero figli di quella storia, ma ne sono (inconsapevolmente?) eredi.

Foto di Giuseppe Follacchio

Anche quest’anno Fuori Programma Festival ha disseminato in diversi spazi della città e con formati propri al sapere coreografico, lavori che si organizzano da residenze e da altre articolazioni formative, pronunciamenti che alimentano la parte “spettacolare”, anzi ne nutre il percorso mai scisso di un festival che da sempre si muove tra accenti avanguardisti in territori non consueti alla danza (sempre che di consuetudine possa parlarsi nei “dialetti” della danza, di per sé portata a sparigliarne il senso nell’ordine dei corpi), e riporto della tradizione (quella del contemporaneo, per intenderci), ormai sedimentata da oltre un trentennio, consolidata come una volta era permesso fare a giovani artisti, cioè sedimentare, crescere ed eventualmente diventare tradizione. Due lavori presentati in prima nazionale e in successione nella stessa serata hanno eco di quanto si diceva, perfettamente adagiati nell’adesso di questo tempo in evoluzione (almeno in termini artistici) e, al contempo, come oggetti rabdomantici in cerca di una matrice spesso dichiarata nella attualità circostante mentre sembra raccogliere, a nostro parere, una antica memoria nelle ragioni del teatro-danza. Home dello statunitense Graham Feeny (che ha un corposo curriculum nella sfera non conforme della danza) costruisce un quadro relazione in continuo riverbero delle azioni, apparentemente mosso alla ricerca di una fisicità “perpendicolare”, sbilanciata nel dialogo tra i due performer in scena Amari Frazier e Lounes Landri, che si alimenta di sfumature e forzature nel tempo dello spettacolo e più precisamente nella chiave di resistenza ch’è fisica e simpatetica, quasi privata, tra i due. Lo spazio dell’arena all’aperto del Teatro India è il loro ring, capsula di combattimento e di concupiscenza, dove l’uno tende verso l’altro per poi distanziarsi, diradando metaforicamente la trasparenza tra performer e persona, implementando così l’idea stessa di tempo in quel loro legame speciale, fatto anche di sguardi e affanni, di possibilità e atti di rinuncia, finanche di recupero del respiro nell’avviluppato e ipnotico refrain del movimento.

Foto di Giuseppe Follacchio

Arriva dalla Spagna il secondo lavoro ad opera di Chey Jurado e Javito Mario dal titolo evocativo e impregnato semanticamente di riflessi dal sanscrito, Samsara, in quel pieno di significati che rimandano al ciclo della vita, ciclo nell’anelito della libertà spirituale nel cuneo della cultura indiana. E nello scorrere insieme del tempo (ancora una perifrasi del tempo) si presenta un susseguirsi di “incastri” coreografici che negoziano la ciclicità gestuale armonizzando le assolutezze di una danza corporea. Al corporeo si allude nell’introspezione indiana, nell’analisi del sé aperta alle derive che il corpo negozia col proprio respiro (come, d’altronde, fa lo Yoga); lambisce sia l’acrobatico che la breakdance o l’hip hop. Entrambi i performer hanno anche loro curricula importanti, seppure in un versante a torto considerato minore (nel grande fraintendimento della cultura minoritaria, che ha segno estetico e politico ben precisi), e costruiscono paesaggi di una sfera quotidiana appunto possibile (dunque politica), quando il rapporto tra i due è converso, apparentemente fatto di azioni che sembrerebbero mancanti, obliate nell’overdose della dinamica. Due lavori, Home e Samsara, di impatto e di accelerazione visiva prorompenti (con invenzioni persino gioiose), consegnati a quell’idea di teatro-danza decisamente allegorica, arricchita tenacemente da una prolusione di riferimenti visivi lasciandosi portare da incipit narrativi (mai esplicitati ma solo accennati) costruiti per frammenti. Continuamente interconnessi, gli elementi scenici, siano essi corpi scenografici che i corpi dei performer, benché guidati da salde coreografie sembrano improvvisare una certa urgenza personale, anche solo mediata degli sguardi o dalla resa alla fatica.

Foto di Giuseppe Follacchio

Home

coreografo Graham Feeny
con Amari Frazier, Lounes Landri.

Samsara

di Chey Jurado e Javier M Salcedo
con Chey Jurado e Javito Mario
light design Fernando Careaga
manager Patty Hinchado
musiche Mud – Nicolas Jaar; Spectacle of Ritual – Kali Malone.

Fuori Programma Festival, Arena del Teatro India, Roma, 2 luglio 2024.