
Audace, scabroso, controverso testo di Peter Shaffer, Equus è un irrevocabile inchino a Dioniso e alla sua autorità.
Debutto londinese nel 1973, prima rappresentazione italiana nel 1975 al Teatro Stabile di Genova, regia di Marco Sciaccaluga, ventiduenne (altri tempi!), il testo è stato appena riproposto al Teatro Eleonora Duse per la regia del figlio Carlo, in un ideale passaggio di testimone a cinquant’anni di distanza.
In scena un cast che schiera in campo Luca Lazzareschi, Pia Lanciotti, Camilla Semino Favro, Paolo Cresta, Giulia Prevedello, Michele De Paola e Pietro Giannini, nel ruolo incriminato: un adolescente affidato alle cure di uno psichiatra per avere accecato sei cavalli.

Ispirato da un fatto realmente accaduto, Equus è innanzitutto un’analisi priva di giudizio del rapporto tra natura e cultura, con tutte le sovrastrutture che alla cultura attengono: famiglia, religione, educazione, legge e giustizia, scienza, relazioni convenienti e strutturate e relative deroghe e licenze. Di contro, la natura naturans, l’istinto, la vitalità turbolenta che precede ogni regola e non sa essere detta. Il mistero? Il sacro? Il non nominato e l’innominabile. Ormai siamo al di qua, ci siamo perduti, siamo dimentichi di quel che eravamo, di quel che siamo stati.
Fino al caso limite, l’“estremo”, lo chiama lo psichiatra, che gli si presenta sotto forma di un paziente diverso dal “solito insolito” ragazzino problematico, scardinando un’impalcatura culturale costruita in decenni di studio e professione.
Alla cultura che analizza, divide, incasella, regola e censura, resiste un impulso primordiale che sovverte senza avvertire, e chiaramente spaventa, confonde, mette in crisi.
Quanto dionisiaco c’è in ciascuno di noi e quanta umanità in un animale che ci osserva e forse ci giudica?
È possibile che un cavallo trasformi le sofferenze fisiche in sofferenza morale?
E quanto noi esseri umani scontiamo nel corpo le diritture morali?

Domande che covavano silenti o silenziate fuoriescono assumendo la forma, informe, della vitalità animalesca che vibra nel contatto tra un ragazzino di nome Alan e un cavallo di nome Equus.
Le “vibrazioni” di Alan sono il punto zero in cui natura e cultura fanno cortocircuito, la crepa che demolisce l’armamentario fittizio di presunzioni e certezze, l’attimo da cui ripartire.
Ricoverato per intercessione di una magistrata che vuole sottrarlo alla giustizia, un diciassettenne che a malapena sa leggere e scrivere (e in questo si affaccia probabilmente lo spettro dell’autismo) fa crollare in un colpo il “business del rattoppo mentale” al quale il dottor Dysart sembrava essere immortalato, al punto che cede le armi di fronte alla provocazione e lentamente si piega, si forgia, sempre meno difeso e sempre più acquiescente di fronte a quel demone che li abita entrambi.
Similia similibus iuvant. Il simile si cura con il simile. Poi, chi beneficia e chi è beneficiato non è né chiaro né definitivo.
Le sedute tra il dottor Dysart e il giovane Alan sono anche le fasi di un’autocoscienza che prende atto del suo paradosso: arrivati alla fine, laddove la ragione tocca il suo apice, è la ragione stessa che deve capitolare di fronte a sé stessa, l’istinto la mette alla corda, quel bozzolo amorfo dal quale si era man mano emancipata la riporta dentro di sé, un attimo prima di esplodere.
Lo psichiatra entra in crisi e noi con lui. E quanto è bravo Luca Lazzareschi nel renderci partecipi di quella montagna di dubbi che ci riguarda e ci investe come esseri umani, innanzitutto, e genitori e insegnanti e mangiapreti e baciapile e ministri di qualunque credo e religione.
Da un punto di vista drammaturgico (ma non soltanto drammaturgico), è interessante che il conflitto, inizialmente posto tra lo psichiatra e il ragazzo, si evolva in quello tra loro due, insieme, sempre più complici e sempre più affini, e quello che resta di una sottocultura che conosce di amore e di protezione ma non riesce a capire. Impastata di ideologie e di superstizione, di frasi fatte e pregiudizi, prova vergogna, si nasconde, sfugge e mente, nega e rimuove.
E infine si assolve quando non ne può più. Quando sente di avere fallito dismette il suo ruolo: non per colpa, ma per inabilità si scagiona. Così fa la madre, un’accorata Pia Lanciotti, precisissima nelle intenzioni, anche quando getta la spugna (“Lui è lui e non la somma delle cose fatte da noi”).

E lui è l’inizio, l’embrione, il contatto primigenio con la natura, cavallo e cavaliere in un corpo solo, che teme il proprio sguardo e lo sacrifica. Pietro Giannini, giovanissimo, offre una prova di grande generosità e dedizione al ruolo, selvatico, arguto, strafottente, provocatorio come un intelligentissimo cavallo pazzo che con uno sguardo ti mette a nudo.
Gli occhi, lo sguardo sono nel testo un richiamo costante accolto anche scenicamente dalla regia che immagina una lunga spirale dove tutto è sotto gli occhi di tutti, un probabile e immenso bulbo oculare che segue gli spostamenti, i dialoghi, le azioni. Un grande occhio che contiene il prima e il poi, dove i ricordi di spiagge, di amplessi, di incontri clandestini, vivono come flashback in un qui e ora meno onirico ma non meno simbolico, tra gli appuntamenti di regime di uno studio psichiatrico, soltanto evocato.

Nel ruolo della magistrata, animata da un nobile istinto di protezione, una persuasiva Camilla Semino Favro; in quello del padre, scorbutico e un po’ ideologico, dalla carne debole e dal cuore buono, Paolo Cresta. Giulia Prevedello invece si divide con buona versatilità in due ruoli molto diversi: la sbrigativa infermiera del reparto psichiatrico e la ragazza amica istruttrice e (quasi) levatrice di Alan.
Una scena che immagino difficile, quella tra i due, resa con una bella disinvoltura.
Un testo modernissimo e uno spettacolo a cui auguriamo un futuro.
Equus
di Peter Shaffer
traduzione di Marco e Carlo Sciaccaluga
con Luca Lazzareschi, Pietro Giannini, Paolo Cresta, Pia Lanciotti, Camilla Semino Favro, Giulia Prevedello, Michele De Paola
regia Carlo Sciaccaluga
scene e costumi Anna Varaldo
luci Aldo Mantovani
musiche Andrea e Leonardo Nicolini
produzione Teatro Nazionale di Genova. In accordo con la Concessionaria Antonia Brancati srl.
Lo spettacolo è andato in scena al Teatro Eleonora Duse di Genova in prima nazionale dal 25 marzo al 6 aprile 2025.