Tra maestri e istruttori. Rotte e rivolte
Iben (1) è la mia maestra. E lo sarà sempre.
Ero stato invitato a Fara Sabina, a un incontro di gruppi del Terzo Teatro, dove presentavo A rincorrere il sole. Aspettavo gli spettatori seduto, avevo i capelli lunghi e neri, ero magro come uno stecco, con una maglia che sembravo uno straccione. Iben entrò, mi vide e disse al suo assistente: «Troppo carino per essere bravo». Questo fu il suo primo approccio verso di me. A fine spettacolo si è avvicinata per parlarmi e ha iniziato a piangere. Ci siamo abbracciati. Senza dirci nulla. Ero sconvolto perché non avevo mai osato rivolgerle la parola, per me era un’attrice immensa. Quando ho ammirazione per qualcuno, non oso disturbarlo. Mi ha chiesto di lavorare insieme e io le ho detto: «Iben, io non oso rivolgerti la parola, dovrei essere io a chiedertelo». Accettai.
Ricordo il primo giorno di lavoro a casa di Roberto Bacci. Iben fece una danza silenziosa… Sembrava danzare con gli dei. Poi, io le mostrai tutti i miei esercizi di danza, plastica, acrobatica, karate, judo. Una volta finito, lei mi ha detto: «Tu conosci molte parole, molte più parole di me, ma non sei in grado di costruire una frase».
La grandezza di Iben è che lei non ti insegna a fare come farebbe lei. Non ti dice come si fa: ti guida, ti lascia scoprire le tue di risorse, ti insegna a comporre. Questa sua capacità di guidarti silenziosamente è una specie di dono, l’attenzione verso l’altro. Un concetto che ho ritrovato studiando la vita di Simone Weil. A me è servito moltissimo perché mi ha portato ad avere una coscienza del corpo, a far emergere un mio modo di lavorare.
Una volta, uno studioso legato al Terzo Teatro mi disse: «Tu devi distinguere tra il tuo istruttore e il tuo maestro». Cercava di dirmi che Iben era la mia istruttrice e Barba il mio maestro. Mi irritò molto. Barba è il maestro di Iben, ma Iben è la mia maestra. Mi sono sempre sentito lontano da lui, anche se è stato generoso con me. E poi impari anche rifiutando le cose dell’altro che non ti piacciono: si diventa grandi nella diversità, questo per me è il punto fondamentale.
Farfa (2) è stato un gruppo di allievi di Iben dove entrai anch’io. Ognuno era lì per lei. C’era tensione tra di noi. Dopo qualche settimana, dissi a Iben: «Lascio Farfa, non c’è amore, è come se fossimo tutti in competizione. Non sono abituato a lavorare così». Iben mi rispose: «Se lasci Farfa, sciolgo il gruppo». E sono rimasto. Poi, quando io e Iben ci siamo sposati la situazione è peggiorata.
A Farfa ero tecnico, organizzatore e attore. Avevamo fatto due spettacoli, tra il 1980 e il 1984, Heridos por el Viento, uno spettacolo di danze, e Brisas Gnomos y Viento, una parata.
Abbiamo lavorato tantissimo, ricordo con gioia sedute di lavoro estenuanti ma ricche, le reazioni degli spettatori erano quasi sempre calorose e commosse. Ma Farfa era nato fuori tempo perché proponeva danze e parate ormai inflazionate dai tanti gruppi del Terzo Teatro.
La disistima e le gelosie hanno distrutto il gruppo. Chi aveva capito a fondo quello che accadeva fra di noi è stato Grotowski. Aveva visto un nostro training e una prova di Heridos por el Viento a Holstebro nel 1984, e aveva detto a Iben: «Questo gruppo ha molti problemi. Spero che tu riesca a portarlo avanti». Quattro mesi dopo il gruppo era distrutto. Lui aveva colto le tensioni tra gli attori. E questo è stato Farfa. Tante persone di talento e vocazione che hanno seguito poi le loro strade.
Matrimonio con Dio (1984) nasce perché Iben vuole fare uno spettacolo con me e chiede a Eugenio Barba di dirigerci. Iben voleva lavorare su Nijinskij. Abbiamo studiato la sua vita attraverso i diari, le biografie, le tesi di laurea… E poi Eugenio ha composto il testo, unendo frammenti di diversi autori raccolti da noi. È stato il mio primo incontro con lui in sala. Mi fece fare un’improvvisazione sulla quale lavorammo per creare la scena della camminata sulla neve, ma io per settimane mi sentii in balia di movimenti che non mi piacevano e non capivo, la cui finalità continuò a non essermi chiara fino alla fine. Dopo queste prime prove dissi a Iben: «Io così non riesco a lavorare». Allora ci siamo chiusi in casa di Roberto Bacci, abbiamo fatto un sacco di improvvisazioni per conto nostro, registravo, guardavo, scartavo a modo mio. Poi siamo andati da Eugenio, gli abbiamo mostrato tutto il materiale. Era raggiante e in una settimana l’ha montato. Però lì ho compreso: non ero fatto per lavorare in quel modo. Anche Eugenio lo aveva capito. Infatti, quando abbiamo fatto Talabot (1988), Barba mi diceva: «Preparami qualcosa in quel tuo modo strano». Mi lasciava libero perché aveva capito che dandomi delle indicazioni mi avrebbe fatto morire. Lasciandomi libero, invece creavo.
Quando stavo andando via dall’Odin e avevo già una coscienza poetica autonoma, decisi di dedicarmi a un progetto solo mio, Il Mare in tasca (1989). Mi ricordo che qualche volta, parlando con Eugenio, mi trovai in disaccordo su alcuni suoi procedimenti artistici. Mi interrogavo sul rapporto tra testo e immagine, tra immagine e azione, e sull’intimo che diventa corale.
Dietro Il Mare in tasca c’erano le letture di Pessoa e la folgorazione per Kantor che avevano maturato dentro di me negli anni. Mi chiedevo come rappresentare l’invisibile, l’irrappresentabile. Mi chiedevo cosa si cela dietro gli oggetti.
Iben era stata la mia maestra e mia moglie per dieci anni. L’avevo tradita e ci eravamo lasciati. Il Mare in tasca parla anche dell’amore fallito.
La reazione di Barba allo spettacolo fu la conferma che ero sulla strada giusta.
Mi chiamò nel suo ufficio e cominciò a dirmi le stesse cose che nello spettacolo Dio dice al prete. Ne Il Mare in tasca un attore si sveglia, scopre di essere stato trasformato in un prete, parla con Dio, ma non crede in Dio. Dio è anche la metafora del regista, il prete è l’attore. Eugenio, nel suo ufficio, mi dice: «Della tua biografia non interessa niente a nessuno!». E io pensai: queste sono le parole di Dio/regista all’attore/prete. Sono uscito da quell’incontro con la sensazione di dover fare altro. Quello, per quanto rigoroso e onesto, non era il mio teatro.
1) Iben Nagel Rasmussen è attrice, regista, pedagoga e scrittrice. È nata nel 1945 a Copenaghen, in Danimarca, figlia della scrittrice Ester Nagel e dello scrittore Halfdan Rasmussen. È stata la prima attrice ad unirsi all’Odin Teatret dopo il suo arrivo a Holstebro nel 1966. Le sue esperienze professionali sono presentate in The Actor’s Way a cura di Erik Exe Christoffersen, e nel video documentario Il Corpo Trasparente a cura di Claudio Coloberti. Ha pubblicato quattro libri: Breve til en veninde, Den blinde hest (trad. ita. Il Cavallo cieco, Roma, Bulzoni, 2006), Den fjerde Dør (La quarta Porta) e Book of the Winds insieme al fotografo Francesco Galli.
2) L’importanza della trasmissione per Iben Nagel Rasmussen è sempre stata centrale. La brevità dei seminari condotti e la conseguente insoddisfazione la portò alla fondazione del gruppo Farfa nel 1980. Il gruppo era una cellula autonoma del Nordisk Teaterlaboratorium e gli attori provenienti da diversi paesi del mondo si incontravano regolarmente per un periodo di tre-quattro settimane. Insieme svilupparono un proprio training e crearono diversi spettacoli. L’esperienza di Farfa si concluse definitivamente nel 1988.