La rubrica Esercizi di memoria continua con Fabrizio Crisafulli. Il viaggio ripercorrerà esperienze importanti per la sua formazione attraverso la narrazione di episodi, di esperienze dell’artista e la memoria degli oggetti presentati che ne hanno modellato l’immaginazione. Un sampietrino, una marionetta, una danza e la concezione di luce.
La vostra proposta di raccontare il mio lavoro attraverso la scelta di alcuni oggetti mi ha subito attratto. Non lo avevo mai fatto e mi ha messo nella condizione di ripensare alle mie attività cercando dei racconti intorno ad ogni oggetto che via via andavo a ripescare. Quando si va indietro nella memoria personale, si ripensa inevitabilmente alla propria vita, a quelle esperienze che hanno modellato la nostra immaginazione, ma devo dire che la mia scelta all’inizio è stata istintiva, solo dopo, quando li riponevo in una borsa, mi sono reso conto che quella selezione era stata dettata per più di un motivo.
Ecco il primo oggetto che voglio mostrarvi: un sanpietrino. All’inizio avevo pensato di portare un pezzo di pietra lavica perché sono nato a Catania, proprio sotto l’Etna. La lava ha influenzato profondamente la mia immaginazione. Fin da bambino vedevo da lontano quella striscia di fuoco che scendeva dalla montagna e poi, solo successivamente, ho avuto modo di osservarla da vicino. Un giorno, mentre facevo un’istallazione a Parma su un ponte romano, una persona mi si è avvicinata e mi ha detto: «Ma questa sembra lava!». Dentro di me è scattato qualcosa: «Ho vissuto per diciott’anni sotto il vulcano, ecco la ragione per cui inconsapevolmente ho sempre attribuito alla luce una energia, un ardore che assomigliano molto alla pietra lavica». Questa scoperta mi ha portato a ripensare ad un avvenimento per me molto importante. Nel 1972 sono andato sull’Etna con Haroun Tazieff (1), maestro di vulcanologia belga. Con la sua troupe televisiva voleva riprendere le bocche che si erano da poco aperte. Questa che vi mosrto è proprio una delle fotografie che scattammo quella notte. È stata un’esperienza emozionante: ero circondato da quella potenza di energia e luce. Ricordo che Tazieff mi disse un’unica cosa in tutta la serata: «Guardare sempre in alto». Era silenziosissimo, concentratissimo, stava fermo ad osservare le esplosioni e a misurare il gas. Questo evento è stato talmente forte da aver determinato il mio modo di concepire la luce come materia, come una forma, come qualcosa che ha energia. Non è la luce che illumina, è una forza, una presenza importante. In teatro c’è l’abitudine di considerare la luce solo nella fase finale del processo di lavoro, qualcosa di secondario, mentre in realtà la luce è un elemento primario, generativo, che sta all’origine, dà vita, condiziona le azioni e i nostri modi di organizzare l’esistenza. Sono rari gli esempi in cui la luce non è “bistrattata”, come nei lavori di Bob Wilson (2) e Alwin Nikolais (3). Un altro oggetto molto importante per me è la lavagna luminosa. Non l’ho portata, ma la sua presenza è legata ai laboratori che facevamo in Sicilia negli anni Ottanta. Ci dedicavamo ad una ricerca che potesse permettere alla luce di entrare in relazione autorevolmente con gli altri elementi, come il suono e la musica che hanno il loro linguaggio specifico. Ancora una volta, una esperienza decisiva è legata all’Etna. Anni dopo la mia spedizione con Haroun Tazieff sono tornato vicino alle bocche del vulcano, ma questa volta mi sono concentrato sul rumore che facevano i lapilli. L’ascolto di quei rumori è stato fondamentale per il mio modo di concepire il suono come una fonte originaria che prende vita da quello che accade in scena e che, solo successivamente, può essere elaborato. È come se il suono scaturisse da quello che si fa, non qualcosa nato altrove o da una musica che già esiste: è una rielaborazione delle azioni.
Il secondo oggetto che vi mostro è questa marionetta. Quando l’ho vista mi sono detto: «Già, io da piccolo facevo spettacoli con le marionette!», anche se solo vagamente ricordo le storie che inventavo. L’ho scelta perché la marionetta pone, e ha posto nella storia, delle questioni cruciali. La principale è legata alla ricerca di un equilibrio tra il muoversi e l’essere mossi. In fondo, la marionetta esprime una dimensione opposta a quella dell’attore: la marionetta è mossa mentre l’attore tende a muoversi, ad agire e non a essere agito, a parlare e non ad essere parlato. Mi interessa molto questa dimensione dell’essere mosso. Kleist (4) diceva che la marionetta può essere un dispositivo che permette di superare l’affettazione dell’attore enfatico, quello che recita in maniera eccessivamente progettata. Questo mi ha fatto pensare ad un lavoro per me importante che io stesso ho fatto. Vedete? In questo video ci sono io una trentina d’anni fa mentre eseguo una danza pensata appositamente per uno spettacolo intitolato Il pudore bene in vista.
Questa danza era basata sull’opposizione reale/virtuale, muoversi/essere mossi, dire/non dire. Attraverso le marionette rivedo questo tentativo di stare in equilibrio tra queste opposizioni. Ho danzato davanti alla telecamera per un’ora e non mi fermavo neanche quando veniva cambiato il nastro. Facevo quello che mi interessava fare, senza sapere cosa avrei fatto esattamente. Cos’è che mi muoveva? Erano le regole che mi ero dato, regole molto precise tra le quali c’era quella di muoversi sempre e di evitare i gesti significanti. Ho trovato in un manuale del Seicento di Giovanni Bonifacio (5) un prontuario di tutti i gesti umani significanti. Al suo interno non ho riscontrato nessuno dei movimenti che faccio io. Quello che accade in questa danza è una sorta di apertura e di “neutralità”. “Neutrale” nel senso che è in grado di entrare in relazione con tutto, in ogni posto in cui la proietto, anche mandandola in rewind, e che va a tempo con tutte le musiche. Dopo questo spettacolo ho usato questa danza diverse volte nei Teatri dei luoghi e in vari modi: rimpicciolita, ingrandita, proiettata su un castello, su un albero, su un sasso, attraverso un buco e, ogni volta, ha assunto un senso diverso perché è come se assorbisse il senso stesso dal luogo. È sempre la stessa: mi muovo in continuazione e sono mosso da qualcosa che ho dovuto preparare prima e sulla quale ho dovuto lavorare tanto.
Note
1) Haroun Tazieff è stato un ingegnere, agronomo e geologo franco-belga, precursore della diffusione della vulcanologia al grande pubblico e della ricerca sui gas nei dinamismi eruttivi.
2) Regista, drammaturgo, scenografo e attore ha lavorato anche come coreografo, pittore, scultore, videoartista, designer di suono e luci.
3) Alwin Nikolais è stato un coreografo, direttore d’orchestra, compositore e regista statunitense, precursore del multimedia, un pedagogo della danza come “visual art of motion”.
4) Crisafulli si riferisce al celebre Il teatro delle marionette (1810) di Heinrich von Kleist, un racconto di fondazione per il pensiero sull’attore: come essere spontanei e coscienti nello stesso tempo. Con Kleist si inaugura una visione di una danza diversa da quella che vede lo spettatore introdotta dal tema della “grazia” in una provocatoria difesa della superiorità della marionetta su qualunque danzatore umano.
5) Scrittore, giurista e storiografo italiano della Repubblica di Venezia. Fabrizio Crisafulli si riferisce al libro L’arte de’ cenni, edito a Vicenza nel 1616.