Riprende il viaggio di Esercizi di memoria con Marcello Sambati, poeta, attore, drammaturgo, regista e scenografo che abbiamo incontrato nella seconda metà di marzo all’Università di Roma Tre. Questo primo episodio si snoda attraverso un doppio tema: Contagio/Crocevia.
Nella valigia che gli abbiamo chiesto di portare Marcello ha messo: un chiodo, una vecchia chiave, un’armonica, una pietra e una bacchetta da direttore d’orchestra. È proprio a partire da questi oggetti che l’esercizio comincia, nella lingua di Sambati poetica e incandescente capace di restituire attraverso le immagini la grazia e la complessità dell’arte.
Cominciamo dalla pietra. Ho preso un piccolo appunto che parla di oggetti: materiali e immateriali. Come artisti siamo più vicini a quelli immateriali per quanto la materia sia un aspetto fondamentale dell’esistente, perché senza il materiale non vi sarebbe nemmeno l’immateriale.
Perché voglio cominciare dalla pietra? La pietra è uno degli oggetti più materiali e in qualche modo privo di immaterialità. Attraversa i millenni ferma nella sua immobilità, nel suo esibire la forma indifferente allo svolgersi della vita per quanto la pietra nasca da movimenti vitali del pianeta.
La pietra ha sempre avuto un fascino incredibile per me. Metterle insieme, incolonnarle, spostarle, creare delle forme con le pietre e soprattutto nelle lunghe passeggiate in campagna per colline, per boschi, questo incontro con i campi di pietre è sempre qualcosa di straordinario perché testimonia delle tracce non umane. Le pietre sopravvivono indifferenti anche agli incendi, la prima pioggia le lava dalla cenere e così ritornano sbiancate dal tempo.
Una volta mi piaceva sperimentare le pietre come cuscini: appoggiarvi la testa, oppure provare a mordere la pietra. Ho fatto degli spettacoli in cui io ero completamente vestito di pietre. C’era questa attrazione irresistibile con l’elemento, con questo oggetto materiale.
Ho fatto scultura all’Accademia delle Belle Arti, ho lavorato con la pietra leccese che è una pietra tenera, si poteva modellare anche con un coltello, tagliare, spezzare. In realtà questa è la mia storia della pietra, raccontando però la mia storia della pietra scopro che ogni frammento del racconto apre finestre su altri racconti: laterali, sotterranei e questo vale per tutte le storie. Ogni punto di una storia chiude una finestra e ne apre un’altra. Per esempio, questa bacchetta da direttore d’orchestra l’ho comprata tantissimi anni fa per un lavoro con Leo De Berardinis che mi aveva invitato al Festival di Santarcangelo dove feci un pezzo dirigendo uno dei Capricci di Paganini, quello più veloce e assurdo da dirigere (ho ripreso questa scena anche in altre performance). Dirigere quel pezzo di Paganini equivale a squinternare il corpo come gestualità, è irresistibile, irrefrenabile. Anche qui a partire da una bacchetta quante storie si possono raccontare…
Nel tempo è passata in molte mani, la uso spesso con i ragazzi disabili con cui lavoro, perché agire sulle onde della musica dà loro un senso di abbandono, di benessere, per questo la porto sempre dietro. Potrei anche dirigere le mie parole mentre parlo perché si presta a ogni movimento del corpo che può essere utilizzato nei movimenti della bacchetta.
L’armonica non la uso tantissimo. Ogni tanto nei momenti di solitudine mi piace sentire questo suono arcaico, quando ero bambino e da ragazzo tutti avevano un’armonica a bocca (intona una melodia).
Io non conosco la musica, ma per questo strumento non c’è bisogno di conoscerla, per cercare dentro di sé quegli armonici che ti rasserenano e aprono su mondi alati, più vicini all’armonia degli uccelli.
Siamo passati dalla pietra a questa dimensione immateriale che è quella che ci sostanzia, ai pensieri delle cose immateriali.
Poi una vecchia chiave che mi porta nel mondo della poesia. Questa chiave non ha nessuna porta da aprire è rimasta orfana di tutte le porte per questo l’ho adottata. E qui entriamo nel campo dell’immateriale.
Perché questa chiave mi introduce nel mondo della poesia? Perché non ha nessuna porta da aprire e quindi rimane come oggetto orfano, abbandonato, gettato nel mondo come ciascuno di noi, concetto heideggeriano dell’essere gettati nel mondo come cose.
Infine, il chiodo. Il chiodo fisso è quello che ciascuno di noi ha, un oggetto simbolico che rimane nella sua ferocia e crudezza. Un oggetto pericoloso con cui si può anche crocifiggere. Ho sempre avuto il sospetto che siano stati usati chiodi da venticinque, da venti, per la crocifissione.
La valigia vuota anche è un oggetto svuotato di tutto. Questo vuoto è a sua volta una cosa, il vuoto fa parte di quegli oggetti immateriali che sono mentali, che sono fascinazioni.
«Un uomo è ciò che resta e quanto resta è ciò che lo attraversa». Avevo 19 anni quando l’ho scritto e non ero stato ancora attraversato. Alcune mie poesie, tra cui questa, furono recensite dalla rivista “Techne” di Firenze che era solita impaginare i materiali più disparati come i sacchetti di terra ad esempio. La poesia era già la mia malattia.
Ero a Lecce dove avevo creato il mio primo teatro a Lequile dove sono nato. In quel momento facevo ancora l’Accademia delle Belle Arti ma ero già attratto dal teatro. Avevo una vecchia rimessa di carri alla periferia del paese, si chiamava “Centro prove” lo usavamo per fare poesia e teatro. Fin da bambino sugli alberi, in campagna, era tutta una recita, la vita era una recita. Finita l’accademia sono stato due anni in Basilicata, dove insegnavo educazione artistica, poi sono tornato per un anno a Lecce per insegnare al liceo artistico, infine mi sono trasferito a Roma, al principio non sapevo bene cosa fare ed entrai in crisi. Siamo negli anni Settanta.
(Stefano Geraci interviene con una domanda: «Poi sei andato al Beat 72 e hai incontrato Vasilicò?»). Vasilicò l’ho incontrato quando faceva Le 120 giornate (1). In realtà ero affascinato dal lavoro di Simone Carella, dai suoi spettacoli e soprattutto da quando lui litigando con gli attori li aveva cacciati via e fatto Cavalcata sul lago di Costanza, uno spettacolo solo con le luci. Avevo concluso l’Accademia delle Belle Arti con una tesi sulle Avanguardie Russe e Sovietiche, la più estrema. Ero attratto da questo mondo visivo, plastico, sperimentale, quindi cominciai a frequentarlo.
Compravo “Paese Sera” e altri quotidiani, in uno trovai un annuncio dove cercavano attori e mi presentai. La compagnia di Gianfranco Mazzoni era parte della Cooperativa Gruppo Teatro, molto nota in quel momento. Avevano fatto un paio di spettacoli, uno dei quali aveva dato scandalo. Stavano provando Discorso sul Vietnam di Peter Weiss. Si tratta di un testo sterminato, dove c’è tutta la storia del Vietnam dalla preistoria di Shi Huangdi fino ai bombardamenti di Nixon (in quel periodo c’era la guerra del Vietnam). Facevano le prove a tavolino con il copione, mi dissero: «Tu leggi questo pezzetto». Cominciai e mentre leggevo notai che tutti gli sguardi erano fissi su di me e capii che c’era qualcosa che non andava nella mia lettura. Non fui preso come attore per via dei miei accenti tutti meridionali. Vidi però che stavano costruendo la scenografia e i costumi ed io che avevo fatto scultura, lavorato con il legno e la pietra, vidi che le spade erano di gommapiuma e tutti gli oggetti di compensato. «Ma questa che roba è?» dissi: «Ve le faccio io di ferro, vere». Andai in una rimessa di auto vicino casa mia, abitavo allora nella periferia di Roma, presi lamiere e ferraglie che cominciai a tagliare. Per il primo anno feci lo scenografo e la comparsa nello spettacolo. Debuttammo in Sicilia, a Paternò. Lo spettacolo durava quattro ore (allucinante) a vederlo c’erano solo una decina di anziani, nemmeno a metà dello spettacolo rimasero in due che russavano. Il regista tornato a Roma lo riprese e lo ridusse a due ore. L’anno dopo per il Marat/Sade di Peter Weiss entrai invece come attore. Lì facevamo dei matti e dovevo essere molto agitato. Nel frattempo, studiavo sui libri di dizione, di fonetica e mi segnavo tutte le “o” aperte e le “o” chiuse, le “e” aperte e le “e” chiuse. Poi ho detto: «Va be’ basta fare l’attore, meglio continuare a scrivere». Gianfranco Mazzoni, intanto, andò in crisi perché si era innamorato mentre era in Sardegna e abbandonò la cooperativa. Non c’era nessuno che potesse dirigere il nuovo spettacolo. Così dissi: «Lo faccio io uno spettacolo!». Era primavera, bisognava preparare qualcosa per l’autunno.
Sono tornato a Lecce e per tutta l’estate ho preparato i materiali per il mio primo spettacolo interamente in dialetto salentino, tutto onomatopeico, non c’era una sola parola in italiano. Sembrava fossimo una compagnia africana. Ho una registrazione che sarebbe interessante ascoltare.
La cooperativa voleva fare teatro politico, popolare. Cosa ci sarebbe potuto essere di più popolare di quello spettacolo? Cordelli nella sua recensione lo definì sperimentale, d’avanguardia. Alla cooperativa intanto non andò giù la cosa e non mi fecero fare il secondo spettacolo. Così feci una compagnia per conto mio. Uscito dalla cooperativa, presi uno spazio piccolissimo a San Lorenzo l’Arcamera 1, e misi in scena Frantoio e latte materno che era un omaggio alla mia natura. Non solo ebbi la sovvenzione sin dal primo anno, ma girammo dappertutto in Italia, presentammo lo spettacolo nelle piazze, negli spazi all’aperto, soprattutto in Puglia.
Quando ero piccolo dormivo in campagna giù in Salento al primo piano di un vecchio palazzo. C’era un eucalipto maestoso, gigantesco, quando ti svegliavi la mattina la prima cosa che vedevi dalla finestra era sempre questa chioma meravigliosa. L’eucalipto è molto sonoro, le foglie producono una vibrazione bellissima quando c’è il vento. Ad un certo punto, i proprietari del terreno della casa decisero di abbatterlo perché dovevano costruire un capannone. Lo narro in uno dei miei racconti. Allora ero un ragazzino – gli operai continuavano a scavare questa grande fossa intorno all’albero e a tirare su le corde, tutti questi uomini per sradicarlo dalla terra. È un’impressione che mi è rimasta proprio come una guerra feroce tra l’essere umano e quest’albero. Finché un giorno, finalmente, l’albero venne giù. Da quel giorno non si vide più il vento in quel tratto di cielo.
1) Giuliano Vasilicò è stato un importante animatore del teatro di ricerca nato a Roma tra la fine del Sessanta e il principio degli anni Settanta, Le 120 giornate di Sodoma è uno spettacolo del 1972, tratto dal romanzo di de Sade.