La rubrica Esercizi di memoria, curata da Stefano Geraci e Paolo Ruffini e realizzata con Emanuela Bauco, Elisa Callia D’Iddio, Tiziano Di Muzio, Massimo Giardino, Marta Marinelli, Andrea Scappa, in collaborazione con la Biblioteca di Arti dello Spettacolo dell’Università di Roma Tre, torna con un nuovo ciclo dedicato all’attore brasiliano Augusto Carvalho Pereira, in arte Cacá Carvalho, attraverso le cinque parole chiave Contagio, Crocevia, Apprendere, Scene, Ciò che resta.
Sotto l’equatore
Cacá Carvalho, uno dei più importanti attori teatrali e creatore di inediti personaggi televisivi in Brasile, ha, da molti anni, un importante rapporto lavorativo con l’Italia e, in particolare, con Pontedera Teatro dove è arrivato per la prima volta nel 1988 con lo spettacolo Meu Tio o Jauaretê di João Guimarães Rosa. Da quel momento in poi il regista Roberto Bacci, con la collaborazione del drammaturgo Stefano Geraci, lo ha diretto in numerosi lavori prodotti dalla Fondazione Teatro della Toscana. Negli ultimi anni, l’attore ha realizzato le versioni portoghesi di due produzioni del Teatro della Toscana: La prossima stagione e Leonardo Da Vinci. L’opera nascosta di Michele Santeramo.
Cacá Carvalho è stato recentemente insignito dell’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia dal Presidente della Repubblica Italiana.
Belém, dove sono nato, è sotto l’equatore, piove tanto, in continuazione, nonostante il sole ci sia sempre. Ci sono due stagioni lì: o piove ogni giorno o piove tutto il giorno, non c’è primavera o inverno. Inverno è quando piove molto. D’estate, invece, fa caldissimo. Volete sapere qualcosa della mia adolescenza? Non mi ricordo di avere avuto un amico, leggevo tanto però, c’era un posto a casa di mia mamma e di mio padre che è rimasto ancora il posto migliore del mondo per me: ogni giorno sotto il loro letto mi mettevo a leggere libri come quelli di José Bento e Renato Monteiro Lobato, libri antichi brasiliani, sulla foresta, tanti… libri molto colorati che mio padre portava a casa. La persona che però mi ha segnato veramente è stato Rui Barata, l’uomo molto ricco che ha adottato mia madre quando è rimasta orfana da bambina.
Nella casa di Rui Barata tutto era rosso, tovaglia, lenzuola… qualcosa di inquietante… era un uomo politico e un poeta molto importante, la sua casa era un via vai di personaggi illustri che venivano da tutta l’Amazzonia. La sua casa mi piaceva molto, mi piace tuttora; loro non ci abitano più ma è rimasta com’era e, adesso, ci vive una loro figlia. Rui Barata mi faceva leggere di tutto e lui rideva molto perché non sapevo che libri fossero. Mi dava testi che non erano adatti ad un ragazzino di nove, dieci anni. Mi faceva leggere e rideva. Mi ha regalato anche un libro che è stato per me fondamentale e mi ha segnato: Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne. È strano, non lo ricordo nel dettaglio, ma allora non riuscivo a smettere di leggerlo. La battuta che faceva Rui Barata a mia madre, sempre, fino alla morte, era: «Etelvina, tuo figlio è nato vecchio… È un bambino vecchio, difficile». Mia madre a quel tempo non lavorava più da Barata, ma ci andava spesso perché la sua casa era sempre piena di gente e si doveva fare da mangiare per tutti. Io le ero sempre accanto. In quella casa c’era per me un luogo straordinario con un profumo particolare, una mistura di sigari e cuoio. Era la sua biblioteca, chiusa, scura e buia. Non entrava la luce lì. Oltrepassare quella porta mi faceva un effetto incredibile, quella poltrona grossa di cuoio liscio che era un piacere passarci sopra la mano, un enorme tavolo e mi ricordo ancora perfettamente una lampada verde sopra quel tavolone, tutto questo non c’era a casa mia. Entrare in quel posto, andare a prendere un libro a caso, leggerlo, era una esperienza forte. Era e rimane il luogo di Rui.
Mio padre in quel periodo distribuiva, dentro la Segreteria di finanza del Comune dove lavorava, i volantini per le riunioni segrete degli oppositori del regime militare. Per questo, mio padre, è stato arrestato. Quando è scoppiata la rivoluzione, io avevo undici anni. Sono del 1953. Le case di chi era stato arrestato venivano assalite dal grido “Comunisti di merda!”. Io non capivo cosa stesse succedendo, all’improvviso le strade si riempirono di battaglioni di soldati a cavallo, di una grande quantità di camion militari immensi. Tutti gli studenti erano obbligati a partecipare alla sfilata militare il 5 settembre e, questo, mi turbava. Questo periodo mi ha segnato molto anche perché, quando tornavo a casa di Rui Barata, lui non c’era. Dopo un po’ di tempo, dissero che, forse, era stato segregato in una delle isole di Marajó; poi tornato a Belém, è stato incarcerato. Durante questo periodo io e miei fratelli abbiamo cambiato scuola. Prima avevo studiato in una scuola tedesca, la Hilda Müller, era un posto molto bello, pagato da Rui Barata perché i miei genitori non avevano abbastanza soldi. La scuola aveva un grande giardino e tanta terra per giocare, vicino a casa. C’era la professoressa Elba, che mi spronava a leggere. Mi piaceva studiare lì in un luogo tanto diverso rispetto dalla scuola pubblica frequentata dai miei fratelli. Al ginnasio sono andato in un’altra scuola ancora e solo da quel momento ho cominciato a vivere con gli amici, una cosa nuova per me, perché fino ad allora avevo frequentato solo quelli di mio fratello che quando hanno visto che non giocavo mai a calcio hanno cominciato a dirmi “frocio”! Per fortuna da ragazzino però c’era una cosa che mi piaceva tanto. Era una manifestazione folkloristica, troppo poco conosciuta e non so neanche se oggi si pratica ancora in Amazzonia. Forse sì ma, probabilmente, è diversa. Si chiama Pássaros (uccelli). Di che cosa si tratta? Cos’è questa storia? Un cacciatore rimane incantato al cospetto di una bella ragazza, figlia di un re dell’Amazzonia, ma lui è un povero cacciatore e il re gli dice: «Se vuoi sposare mia figlia, devi portarmi il cuore dell’uccello che è molto difficile da trovare». La storia è sempre la stessa, ci sono tutti gli indios che cantano e ogni quartiere, in quegli anni, faceva il suo Pássaro; nel mio si faceva il Pássaro Tem-Tem. Però, c’erano i mostri della foresta che non volevano che si uccidesse l’uccello, che, per la paura, voleva scappare. Questa manifestazione folkloristica viene fatta sempre a giugno, e ci sono libri bellissimi che la raccontano. Io, a volte, partecipavo e mi piaceva, mi piaceva molto, ma non so dire se questa fosse già una manifestazione teatrale o un semplice gioco d’infanzia.
A sedici anni avevo un amico di nome Sergio che abitava molto vicino a casa nostra, erano già gli anni del film Help, dei Beatles e noi saltavamo il muro della scuola per vederlo, insieme agli altri film. Era un altro mondo, fumavo di nascosto… c’erano i Beatles e i Rolling Stones… già, un altro mondo! Sergio aveva una cosa che io non avevo, i capelli lunghi “alla moda” e faceva teatro. Abitando vicino andavamo a piedi a scuola e durante il tragitto mi raccontava dello spettacolo che stava provando.
Un giorno sono andato con lui e arrivato lì, nel pomeriggio, vedo tanta gente in costume e uno con i capelli più lunghi di tutti, era il regista, magro, molto magro, che urlava e litigava con uno del gruppo, quasi si picchiavano. Quel ragazzo si rifiutava di fare qualcosa, diceva che non l’avrebbe fatto mai e il regista urlava: «Tu devi farlo», e lui: «No!». Sergio intanto mi raccontava che quel ragazzo era il protagonista dello spettacolo e che doveva tagliarsi i capelli se voleva interpretarlo. Era l’epoca in cui tutti portavano i capelli lunghi, anche io al posto suo avrei detto di no, eppure sono sceso dalla grande scalinata del teatro più importante di Belém, il Teatro da Paz, ho attraversato la Piazza della Repubblica, dov’era il teatro, sono entrato dal barbiere e gli ho detto: «Togli tutto». Sono tornato dicendo: «Io posso fare la parte». Quando sono rientrato a casa mio padre mi ha picchiato. Una settimana dopo debuttavo al teatro La Scala, senza aver mai fatto nulla prima. È cominciato tutto così. Non mi domandate come ho fatto.