In Argentina, nel 1973, nella fase autoritaria del governo Perón, la Comuna Baires (1), di cui facevo parte, fu invitata al Festival di Nancy, in Francia. Al ritorno, uno dei miei compagni, Horacio Czertok, fu rapito e torturato dai militari. Horacio raccontò che dopo le torture, una volta tolte le bende e minacciato di fucilazione, mezzo accecato dalle luci puntate su di lui riconobbe gli stivali militari (2). Dopo quattro giorni lo lasciarono andare.
Il gruppo decise di scappare in Italia. Il primo fu Renzo Casali, il regista: con moglie e figlia salì su una nave. Altri li raggiunsero nel marzo 1974. Horacio e Cora Herrendorf fondarono la Comuna Nucleo a Buenos Aires. Io, invece, andai a vivere a Santa Fe, a novecento kilometri da Buenos Aires, perché lì viveva una ragazza che è stata il mio grande amore dell’adolescenza. Un giorno il gruppo mi chiamò dall’Italia chiedendomi di raggiungerli. Sono andato da lei, lei stava con un altro, mi aveva mollato tempo prima però io, fedele ai miei sentimenti, le rimanevo vicino e le ho chiesto: «Annamaria, mi chiedono di raggiungerli in Italia ma se ti può servire che io stia qui… io resto». Lei mi ha detto: «Vai via» e io sono partito.
Un anno e mezzo dopo mi separai dalla Comuna Baires e andai a lavorare al centro sociale all’Isola di Milano, il primo centro occupato in Italia: un ex asilo gestito da suore, che i socialisti avevano svuotato per buttarlo giù e costruire il palazzo delle ferrovie, che poi fu riprogettato lì vicino.
Il centro sociale aveva una scuola popolare che dava diplomi di licenza media ai lavoratori e sostanzialmente era un luogo di riunioni. C’era la sede del comitato antifascista con il quale litigavo regolarmente. Mario Cirla, che diventerà uno psicologo, aveva fondato un asilo autogestito anti autoritario. C’era il gruppo delle femministe, dei gruppi rock, e noi creammo il collettivo teatrale Túpac Amaru (3), con tutti i fuoriusciti dalla Comuna Baires.
Organizzavamo cinema per il quartiere, feste popolari, di solidarietà con i Cileni, con i Dominicani, con gli Eritrei: il centro sociale si riempiva di centinaia di persone che arrivavano da qualsiasi parte, di etnie diverse, erano feste dove si cucinava, si cantava, parlava, ballava. Creavamo anche giornate di pittura, facevamo dei murales in tutto il quartiere. Organizzavamo seminari, abbiamo portato Augusto Boal (4), accolto gruppi come Els Comediants e ospitato il Teatro dell’Elfo quando la loro struttura era stata chiusa. Facevamo spettacoli di strada, proponevamo rassegne e venivamo regolarmente vituperati come estremisti.
Lì l’Odin Teatret mi dette una lezione. Li invitai quando erano a Milano. Tom Fjordefalk e Tage Larsen vennero a darci delle lezioni che a me sono state molto utili. E poi venne il gruppo a fare alcune dimostrazioni di lavoro, ma Eugenio Barba mi chiese un baratto, il famoso baratto dell’Odin. Per la prima volta dovevo andare in giro per il quartiere a chiedere alle persone di venire a fare qualcosa, non ad assistere a qualcosa. E quindi mi sono misurato con la cultura subalterna della periferia della opulenta società milanese. Questo è stato molto importante. Questo era il baratto: “fatemi vedere quello che sapete fare”.
E in mezzo a quel baratto c’erano anche le mie pietose scene di agit-prop di cui mi vergogno ancora. Vivevo in una casa a ringhiera e sapevo cosa significasse andare in un bagno diviso con tutte le famiglie, con la pioggia che sferzava sulla ringhiera. Rappresentavo l’avventura di un vecchietto che doveva andare in bagno sfidando il vento e la pioggia e lottare con un topo per riuscire a usare il cesso.
A rincorrere il sole
A rincorrere il sole è stato il frutto teatrale più amaro dei gruppi di base. Forse quel lavoro è stato il canto finale.
L’ho fatto nel 1978 e lo spettacolo raccontava la fine del movimento, la fine della festa.
A rincorrere il sole è nato da una crisi artistica dopo una rappresentazione in un manicomio dove facevamo delle scene per coloro che non erano segregati. Una situazione violenta e intollerabile e noi a fare le nostre tristi pagliacciate. Dopo quella esperienza abbiamo sciolto la compagnia.
È nato anche dalla crisi provocata dal suicidio di molti giovani dell’epoca. Io sapevo dentro di me perché si erano uccisi.
Fu il lavoro che mi cambiò la vita, in cui per la prima volta usai le tecniche teatrali non nascondendomi dietro di esse e comportandomi con sincerità. Quando finivo quel lavoro non mi applaudivano mai… Si creava qualcosa di molto strano, un silenzio totale, poi la gente si alzava, faceva la fila e mi abbracciava, mi invitavano ovunque, mi pagavano pure. Antonio Attisani mi disse una cosa che in realtà compresi molto tempo dopo: «Tu hai capito che il teatro è come la vita, ti comporti a teatro come se fossi nella vita. Ora però, caro César, devi entrare nel teatro, con questa prova ti sei guadagnato solo il diritto di cominciare».
Mesi dopo ho fatto lo spettacolo in un festival teatrale nel manicomio di Ferrara, quando si stavano aprendo i manicomi. Tutto stonava, perché avevamo invaso il manicomio ma i malati non venivano minimamente coinvolti, gli infermieri li zittivano perché non rispettavano la convenzione teatrale. Il teatro non toccava il disagio reale di quel posto. Era una cosa orrenda.
In prima fila c’erano gli internati, dietro gli infermieri e poi gli spettatori, i critici e i giovani attori di altri gruppi. Quando stavo per cominciare dissi: «Qui siamo tutti intrusi tranne quelli che qui ci vivono, e non ci vivono per scelta, ma sono in qualche modo segregati. Io lavoro solo per loro». Ho chiesto agli infermieri: «Se voi siete qui solo per controllare, per piacere alzatevi e andate via». La metà di loro si alzò e uscì. Ai critici, al pubblico e agli altri attori dissi: «Se vi azzardate a far zittire le persone che qui vivono io fermo lo spettacolo. Qui la convenzione teatrale è soltanto un rapporto tra me e i degenti, e questo rapporto è l’unica cosa che rispetterò. Voi pubblico e me attore, siamo anche noi degli intrusi». Poi feci lo spettacolo e fu una delle volte più belle. Quando finimmo, tutti loro vennero ad abbracciarmi esattamente come faceva il pubblico nei teatri e ho pensato che quel lavoro, iniziato in un altro manicomio, finiva lì.
I movimenti giovanili si stavano sgretolando. Ogni volta si era in meno, si era più isolati, e i più fragili si uccidevano.
La morte dei più fragili è l’argomento di A rincorrere il sole che nacque, in realtà, da una mia esperienza personale. Una sera trovai una ragazza di fronte all’Isola, Tiziana, che frequentava il centro. Era lì catatonica, sotto la pioggia, fradicia. L’ho portata a casa mia e l’ho asciugata, le ho dato i miei vestiti… Lei, quella notte, dormì nel mio letto, io sul tavolo. Il giorno dopo voleva restare, ma la mandai via. Era separata, aveva un figlio che viveva con il padre. Due giorni dopo si gettò dalla finestra di casa sua. Un altro amico a Padova si era legato a una sedia dopo aver aperto il rubinetto del gas.
Quando facevo A rincorrere il sole, pensavo di star parlando di loro. In realtà quello che stavo facendo era esorcizzare il mio probabile suicidio perché ero in crisi con il mio mestiere, non sapevo cosa fare. In qualche modo, con quello spettacolo, stavo scongiurando il mio probabile destino, dedicando la vita a qualcosa per la quale sembrava non avessi alcun talento. Quel lavoro è stato come trovare la chiave che ha aperto la porta del teatro.
1) La Comuna Baires è stato un gruppo di teatro indipendente fondato da Renzo Casali e Antonio Llopis il 5 maggio 1969 a San Telmo, un quartiere di Buenos Aires.
2) Alla morte di Perón nel 1974, la moglie Isabel Martínez divenne capo del governo fino al 1976, quando verrà destituita e arrestata dalla giunta della marina militare composta da Jorge Rafael Videla, Emilio Eduardo Massera e Orlando Ramón Agosti. Con questo colpo di Stato ha inizio il “Processo di Riorganizzazione Nazionale», che fino al 1983 farà sparire circa trentamila persone mentre a migliaia prenderanno la via dell’esilio, César fu tra quelli.
3) Túpac Amaru II fu il nome assunto dal capo indigeno peruviano José Gabriel Condorcanqui in onore dell’ultimo Inca (quechua) di cui si dichiarava discendente. Capo dell’insurrezione esplosa a causa delle feroci leggi coloniali che sfruttavano gli indigeni a Tinta, sua città natale, nel 1780 contro gli spagnoli. La figura di Túpac Amaru II emerge come simbolo mondiale della lotta contro il colonialismo e l’ingiustizia.
4) Augusto Boal (Rio de Janeiro) regista, saggista, drammaturgo brasiliano. Il suo teatro principalmente politico gli costò durante la dittatura (1971) la prigionia, la tortura e infine l’esilio. Lasciato il Brasile si trasferisce a Buenos Aires per un breve periodo, poi nel 1976 si trasferirà in Europa e fonderà a Parigi il Teatro dell’oppresso. Tornerà in Brasile per la prima volta nel 1980 e poi sempre più frequentemente fino a quando non vi si stabilirà di nuovo sei anni più tardi fondando il Centro del Teatro dell’oppresso di Rio de Janeiro. Augusto Boal è morto il 2 maggio 2009.