Concludiamo questa serie di Esercizi di memoria, facendo seguito ai quattro appuntamenti precedenti, dedicati ai temi Contagio, Apprendere, Crocevia e Scene. A un anno di distanza dalle nostre conversazioni con Marco Solari, Fiorenza Menni, Enzo Cosimi e Gianni Manzella, abbiamo ridato loro la parola per farci consegnare Ciò che resta, sospeso tra le righe, lontano dal registratore, tra gli attrezzi dell’officina del tempo.
Sconfiggere il vuoto
Osservando i materiali che Marco Solari, dopo aver generosamente scartabellato nel suo archivio, ci ha mandato, abbiamo notato una ricorrenza. Una specie di fiume sotterraneo che ha alimentato il percorso artistico di Marco e de La Gaia Scienza, o almeno uno dei rivoli in cui si sono bagnati. È John Cage. Come emerge dai documenti scelti, una lettera d’invito a una sua performance e la foto di una delle azioni ispirate alla sua opera , Cage diventa l’alleato per annientare il vuoto e i suoi pedinamenti.
Nel novembre del 1973, quando non esisteva ancora La Gaia Scienza, ho preso parte alla serata memorabile, al Teatro delle Arti di via Sicilia, con John Cage in una ragnatela di nastri a loop di Revox che attraversavano lo spazio e Merce Cunningham, in calzamaglia e maschera da volpe, che si arrampicava per ogni dove. Sul palco, mentre il concerto andava avanti con i suoi pieni e i suoi vuoti, veniva preparata una peperonata, alla fine pronta anche per il pubblico. Su una lavagna la scritta «Il miglior governo è nessun governo». Quello spettacolo mi fece felice per la sua sana e comunicativa anarchia. L’indicazione di Cage secondo cui non esiste il silenzio assoluto perché, anche in una stanza anecoica, tu senti il battito del tuo cuore che comunque è una vibrazione e quindi ti arriva qualcosa, ha modellato il nostro fare teatro. Un teatro fuori dai luoghi ingessati e convenzionali, con un posizionamento in ambienti diversi, da ascoltare e reinventare. Il nostro primo approdo è stato il Beat 72, dietro Piazza Cavour, con La rivolta degli oggetti. Poi fu la volta di Cronache marziane, con un intervento sullo spazio radicale, elaborato con Gianni Dessì, Domenico Bianchi, Bruno Ceccobelli e Andrea Fiorentino. Ad un certo punto faceva irruzione anche la musica di Cage. Negli anni seguenti Malabar Hotel, Il nodo di Gordio, La macchina del tempo, Blu oltremare, fino a Ensemble. Il Beat 72 fu punto di incontro tra artisti della parola, dell’immagine, del suono, del corpo: vera fucina delle arti. Simone Carella viveva lì, in un soppalco al quale si accedeva con una scala a pioli, al muro la frase di Mao: «Grande è la confusione sotto al cielo. La situazione dunque è eccellente». Ma La Gaia Scienza si è mossa anche in spazi urbani. Nel 1977 in un appartamento e sui tetti di un palazzo di via Flaminia, poi in giardini e piazze. Per il Festival su Cage, piazza Sant’Ignazio fu il luogo per la nostra azione su Variations III, nel luglio del 1980. Arrivavamo con tre auto, una rossa, una bianca, una blu. Dentro ognuna piume rosse, bianche e blu. Azioni di alieni capitati nel Barocco, con fumogeni, idranti, mongolfiere. Pochi giorni dopo la strage della stazione di Bologna.
Andrea Scappa
Tra madri e sante
Come ci ha raccontato Fiorenza Menni, con il Teatrino Clandestino ha creato spettacoli che sono rimasti impressi nella memoria degli spettatori e in cui, per certi versi, è avvenuta una svolta nel suo modo di cercare una relazione tra i ruoli che avrebbe dovuto interpretare e il suo vissuto. Così abbiamo chiesto a Fiorenza delle tracce significative del suo itinerario artistico e ci ha donato il foglio di sala e il frame del video-parete di Madre assassina, sottolineando nel caso di quest’ultimo l’importanza del video nella costruzione dei suoi lavori.
Con Teatrino Clandestino abbiamo fatto degli spettacoli ritenuti molto importanti, Madre assassina e Hedda Gabler. Per presentare i due lavori, scegliemmo di inserire nei fogli di sala uno stesso segno, una croce rossa che ci sembrava fortemente evocativa, in senso drammatico. In quei due spettacoli il video rappresentava la nostra quarta parete. All’epoca si cercava di giocare molto su questa divisione, cioè d’immaginare l’attore suddiviso su vari piani, per sfruttare la possibilità di avere una supermaschera in video, e un corpo che piano piano arrivava in presenza. La mia necessità era quella di sbalordire, di continuare a sbalordirmi di questa presenza dell’attore in scena e cercare un confronto, quindi, tra l’assenza e la presenza. In Hedda Gabler, una riscrittura del dramma ibseniano al contrario in cui partivamo dalla fine, usammo tre video paralleli. Oggi non si lavora tanto con il video perché trovare il modo di aggiungere qualche cosa ad uno spettacolo con un video è abbastanza complicato. Per noi, invece, in quel momento significava lavorare avvicinandosi il più possibile ai corpi, considerandoli come dei materiali. Noi utilizzavamo il video come una specie di evidenziatore, ci dava la possibilità di concentrare le emozioni su alcuni passaggi narrativi fondamentali della storia che volevamo raccontare. Questi video venivano fatti con i mezzi più assurdi. Per riuscire ad ottenere una buona qualità c’era bisogno di un’ottima performance espressiva. Questi video, però, riuscivano a condensare molto, secondo me, il messaggio dell’opera, avevano una grande forza trainante… A proposito di questo discorso sull’immagine in video sto lavorando a Cenere/Cineconcerto, un progetto sull’unico film realizzato da Eleonora Duse. In questo lavoro, nato da una collaborazione con il musicista e sound designer Luca Maria Baldini e il regista Cosimo Terlizzi, presto la mia voce per rievocare la documentazione pubblicata all’epoca dell’uscita del film. In Cenere, a mio avviso, la Duse fu attratta dalla possibilità di recitare in modo “pulito”, non enfatico, gli veniva offerta, in qualche modo, l’opportunità di sperimentare davanti alla cinepresa. Nel film lei è, infatti, meravigliosamente innovativa, recita in modo minimale e precisissimo, il suo corpo è realmente parte dell’ambiente naturale che la circonda.
Elisa Callia D’Iddio e Massimo Giardino
Verso l’ignoto
Abbiamo chiesto a Enzo Cosimi di condividere con noi un’ultima suggestione, un’impronta della sua esperienza artistica che possa restare come fulcro della sua ricerca. Enzo ha individuato un momento decisivo del suo percorso in Sciame, lavoro del 1987. Ci ha inviato due immagini, la prima è una foto, molto probabilmente scattata da lui ma che, in seguito, è stata ritoccata dall’artista visivo Fabrizio Plessi; la seconda racchiude i crediti dello spettacolo e alcuni estratti di recensioni. Guardare queste immagini diventa, per lui, un inevitabile richiamo al valore di quell’esperienza. La storia della nascita di Sciame inizia con la Biennale di Venezia del 1987, dove Enzo aveva visto Bronx, opera dello stesso Plessi, che aveva contattato e convinto a partecipare alla realizzazione del nascente spettacolo.
«Il mio lavoro è legato alla tradizione, ma con fughe fortissime verso l’ignoto: dimenticare cose che prima erano certezze» (1). Sciame è un lavoro che ha segnato profondamente il mio percorso artistico. Drammaturgicamente la coreografia ha aperto nuovi scenari linguistici. L’imponente scenografia, realizzata da Fabrizio Plessi, costituita da grosse gabbie metalliche e da oltre trenta monitor presenti in scena: oggi sarebbe difficile immaginare un’operazione analoga. L’uso degli oggetti scenici come secchi, scale e una gogna, si mescola agli scenari virtuali e alla drammatizzazione delle azioni di quattro danzatrici e due danzatori: Paola Autore, Rachele Caputo, Rita Cioffi, Karin Elmore, Franco Senica ed io. La musica è di Luca Spagnoletti. L’impatto scenografico, con queste strutture di ferro cariche di tecnologia video, ha determinato un radicale cambiamento della struttura coreografica, generando una delle prime esperienze in Italia di video danza. Elementi diversi viaggiano all’unisono: il corpo, il suono, il video. Una danza energica, nervosa, evocativa.
Emanuela Bauco e Tiziano Di Muzio
La festa della perdita
Un oggetto che vi avrei portato volentieri è la corda di violino: Leo de Berardinis suonava il violino. E amava Cechov. Se ci fate caso, in Cechov c’è spesso un suono, come se in certi punti non gli bastassero più le parole. Nella scena finale de Il giardino dei ciliegi la casa viene chiusa: si sente fuori scena il rumore delle asce che abbattono i ciliegi, e si sente il suono di una corda di violino che si spezza, come una memoria, un segnale, che dice: i tempi stanno cambiando. Il giardino non è un personaggio umano: non è Amleto, Re Lear, non è zio Vanja. È natura coltivata, non allo stato selvaggio, che qualcuno ha curato, trasmesso nel tempo e lasciato a chi verrà dopo. Di solito vive più della vita umana: ci racconta di qualcosa che arriva dal passato e che in qualche modo dovremmo trasmettere. Un libro, un dipinto, anche una musica si possono trasmettere: c’è uno spartito, una partitura che può essere riprodotta. Il teatro no. Avviene lì, nel momento in cui lo spettatore è davanti a un palcoscenico. Leo era contrario a riprendere e rimettere in scena gli spettacoli che aveva fatto. Era, diceva, terrorizzato dall’idea di farlo… A Bologna ho frequentato a lungo Il Teatro di Leo. C’erano due costanti, una era la musica jazz, e un’altra i film di Totò: credo li avesse tutti in questi VHS di cui aveva la casa piena, insieme ad altre immagini e ritratti. Aveva quasi un culto di Totò. Adesso qualcosa è a casa mia. Avrei voluto portarvi qualcosa, ma il trasporto sarebbe stato complicato. Dopo la sua morte, il suo archivio fu donato all’Università di Bologna e, tra le tante cose, trovammo il master di ciò che avrebbe voluto pubblicare del suo ultimo spettacolo fatto l’anno prima. Decidemmo di pubblicarlo, e di farlo a nostre spese. Quando a quel punto non avevamo neanche i soldi per pagare la tipografia, che è la cosa più costosa, decidemmo di fare una festa della perdita anche noi, come il nostro giardino dei ciliegi appena abbattuto.
L’incontro con Gianni Manzella si è concluso così. All’invito di condividere con noi un bagaglio di oggetti testimoni di ciò che resta, Gianni ha portato una scatola. Una scatola piena di carta. L’abbiamo idealmente riaperta e questa volta siamo stati noi che vi abbiamo aggiunto qualcosa: la prima pagina del programma di sala di Totò Principe di Danimarca (1990). Leo, nel presentare lo spettacolo aveva scritto: «Totò e Amleto sono due miei fortissimi riferimenti, le esplosioni naturali del primo vengono temperate dall’estrema “solitudine” ricercata dal secondo e viceversa. Sono due mie componenti come di qualsiasi altro uomo. E nello stesso spettacolo è come se Totò sognasse Amleto e Amleto sognasse Totò».
Marta Marinelli
1) S. Lacavalla, Enzo Cosimi, in “Prove Aperte”, settembre 2000, p. 30.