Teatro de los Andes
Durante gli ultimi anni all’Odin Teatret avevo risparmiato dei soldi per creare un mio progetto. Volevo andarmene in qualche posto sperduto, in cui poter ricominciare daccapo. Eravamo in tre quando siamo partiti per la Bolivia. Naira Gonzalez, Paolo Nalli ed io.
Poco dopo si unirono a noi i miei allievi Emilio Martínez, Filippo Plancher e Maria Teresa Dal Pero. Subito incontrammo due ragazzi di 18 anni, Gonzalo Callejas e Lucas Achirico, del quale diventai tutore legale poiché viveva in un istituto per minori abbandonati.Ho comprato una 4×4 grande, che portava tredici persone, con cui potevamo guadare i fiumi. Ho acquistato una casa abbandonata con tre ettari di terra. Abbiamo costruito il teatro. Io ho fatto l’impianto luci. Dove c’erano le pecore abbiamo alzato i muri, messo il pavimento e fatto un teatro di 15 metri per 10. Un galpón. Abbiamo fatto le stanze per gli attori e con gli ultimi 1000 dollari rimasti abbiamo fatto una festa e salutato tutti gli operai.
Così abbiamo cominciato a vivere veramente in Bolivia. Facendo la fame, per i primi tre anni non ci siamo dati uno stipendio, poi 10 dollari al mese, poi 20. Un anno dopo lo stipendio era di 50 dollari al mese. La gente cominciava a conoscerci, riuscivamo ad essere pagati di più, avevamo sempre i teatri pieni.
La Bolivia è stata il luogo in cui ho cercato di quadrare un cerchio senza mai riuscirci: fare un teatro che fosse allo stesso tempo d’avanguardia e popolare, fare un lavoro che avesse diversi livelli, per i più colti e per i meno colti.
La Bolivia è stato un paese dal quale ho imparato moltissimo. Ho imparato a perdere la paura del diverso da me. A distinguere tra istruzione e cultura. Sono due cose diverse. Spesso l’istruzione è anche una forma di ignoranza, quando non è legata all’attenzione. Faccio un esempio. Un contadino boliviano conosce il nome di ogni uccello che ascolta. Se hai un po’ di congiuntivite, va a prendere un fiore e ti mette il suo succo negli occhi, cinque minuti dopo hai gli occhi puliti. Questa non è istruzione, è cultura immensa legata a cose elementari eppure molto profonde, non primitive ma primordiali. Tutto questo l’ho imparato là, anche il rapporto con il soprannaturale, come gli auspici dei greci che in Bolivia si fanno ancora.
Quando feci l’Iliade, nel 2001, che fu per me lo spettacolo più importante in assoluto, mi chiedevano che senso avesse fare l’Iliade in Bolivia. E io rispondevo: «Ha molto più senso che farlo in Italia. Là per benedire una casa prendi un capretto, lo sgozzi e versi il suo sangue in ogni angolo della casa. Poi seppellisci un pezzo di carne del capretto in terra insieme alle foglie di coca per benedire quel luogo e poi mangi il capretto insieme a tutti. Questo è descritto nell’Iliade, però credo che nessuno di voi lo faccia per benedire la casa in cui va ad abitare». L’Iliade era un colossal, un colossal fatto con niente: eravamo in scena sempre noi. Abbiamo lavorato un anno intero. Non c’è nulla di geniale in quel lavoro, c’è solo il tempo. Chi può permettersi di stare un anno intero, otto-nove persone, chiuse otto ore al giorno, per sei giorni alla settimana, a creare un’opera? Ovviamente ci siamo fatti anche le domande giuste, abbiamo commesso tanti errori e li abbiamo corretti. Se lo rifacessi oggi, toglierei due o tre scene che erano di troppo. Ricordo di aver lasciato una scena perché serviva a un attore per crescere.
In Bolivia ho imparato anche a vivere con niente. Mi ricordo Gauguin, che in una delle conversazioni con Van Gogh, quando voleva andarsene a Tahiti, diceva: «Voglio andare in un luogo in cui lo sguardo sia di nuovo puro, uno sguardo non attraversato da pregiudizi». La Bolivia mi ha insegnato anche questo, a perdere le proprie paure, e sono felice di averlo fatto.
I sandali del tempo
I sandali del tempo parte da una leggenda.
Volevo fare qualcosa che riguardasse gli indigeni della Bolivia. All’epoca avevo conosciuto due antropologi, Gabriel Martínez, che veniva dal teatro, e la moglie Verónica Cereceda. Gabriel è stato per me un po’ un padre spirituale in Bolivia. Venni a sapere di un rituale praticato in alcune comunità molto appartate, in mezzo alle montagne. Nella notte che precede l’anniversario della morte di una persona, l’amico più intimo del defunto prende i vestiti che la famiglia del morto gli ha preparato e se ne va. Quando sorge il sole, ritorna, vestito con gli abiti del morto, e tutta la comunità finge che il morto sia tornato. Lo chiamano col nome del morto, gli raccontano quello che è successo nel corso del tempo, lui va a salutare la moglie del morto e la sera si fa festa grande, la cacharpaya. Si danza, si beve e si piange. Ad un certo punto lui saluta e si perde nel buio. La mattina dopo, ritorna con i suoi abiti e tutti lo rimproverano di essersi perso la visita del suo amico. Questo rituale, ormai scomparso, è stato il punto di partenza per I sandali del tempo. Ho lavorato per molto tempo con i miei attori, cercando immagini attorno al tema della morte. Mentre loro si allenavano, ogni mattina, ero in biblioteca a scovare vicende che mi permettessero di creare una drammaturgia in grado di racchiudere i paradigmi di una storia della Bolivia. Ho scelto due figure: l’etnologo boliviano Juan José Sotomayor, e il gesuita Luís Espinal Camps, insegnante di cinema, che era stato rapito e torturato a morte dai militari. Ho usato alcuni frammenti del quaderno di preghiere che hanno trovato nella sua stanza e che lui aveva intitolato Orazioni a bruciapelo, dove c’erano delle frasi sconvolgenti del tipo: «C’è un limite impercettibile tra la prudenza e l’essere codardi. Non voglio la prudenza che conduce all’omissione. Voglio riposare. Il riposo sta nell’arte e nell’amicizia. Il riposo sta nelle cose semplici, nella frugalità».
Ne I sandali del tempo apparivano Espinal, Sotomayor, un soldato morto che rappresentava tutte le battaglie perdute dalla Bolivia. Apparivano anche due reginette morte in un incidente stradale e un predicatore evangelista che offriva ai morti la deus cola, la bibita spirituale. La Bolivia è invasa da sette religiose che promettono la vita eterna, che spacciano trucchi di magia come miracoli e vendono dvd con gli esorcismi. Così ho creato questo viaggio nella terra dei morti… Le reazioni a I sandali del tempo sono state meravigliose. In Bolivia e anche in Colombia. Il Teatro Municipal de La Paz era gremito, tanto che fuori venivano rivenduti i biglietti al triplo, al quadruplo del valore. Mentre ero nella cabina di regia con il tecnico luci misi fuori la testa, potevo sentire l’energia delle persone. Rientrato nella cabina dissi al tecnico, che nemmeno poteva capirmi: «Stanno pensando ai loro morti». Sentii che in quel momento tutto il pubblico stava pensando alla propria vicenda intima, familiare. Alla fine dello spettacolo, il pubblico si alzò in piedi e cominciò a gridare, ma non urlava «Bravo!», urlava «Grazie! Grazie! Grazie!».
Sono arrivato in Bolivia nel 1991 e I sandali del tempo è del 1994. Ci ho messo tre anni a fare il primo dramma perché prima dovevo creare un pubblico. Per creare quel pubblico ho fatto due commedie, Colón, basato sul fumetto di Altan, e Ubu in Bolivia, basato sull’adattamento dell’Ubu re al contesto boliviano. Quindi I sandali del tempo era il primo spettacolo non comico, in cui imperava il grottesco. Non potevo permettermi un dramma: per conquistare un pubblico lo dovevo prima far ridere, farlo “aprire”, per poi infilzarlo.