Daniela Dal Cin e Marco Isidori hanno fondato nel gennaio del 1986 la Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. Il nome è un fonema-omaggio costruito con il nome di Marco Isidori, che ne compone la prima parte dal suono un po’ duro, seguito da Famosa Mimosa che, invece, lo ammorbidisce. Siamo molto attenti al significante, alla phoné dei suoni e al modo di scrivere: la “e” non è commerciale ma di congiunzione. Questo per ricordare le coppie dell’avanspettacolo come Erminio Meccario e Isa Bluette (1), perché l’avanspettacolo è ancora un territorio in cui l’attorialità e il teatro deve essere energetico, potente e pieno di dignità. Nei primi anni, negli anni di piombo, insieme a Lauretta Dal Cin e Ferdinando D’Agata, Isidori e la Dal Cin si erano ritirati in Val Varaita. Spesso dalla montagna partivano con una 124 scassatissima e arrivavano fino a Roma. Magari nel pomeriggio, andavano a vedere il Romeo e Giulietta di Carmelo Bene (2) e tornavano la notte stessa. Marco Isidori però, sentiva che gli mancava qualcosa. Quel qualcosa era il teatro. Io sono arrivata un po’ dopo. Eravamo in tre o quattro con mia sorella, Ferdinando D’Agata e Lauretta Dal Cin. Eravamo tre gruppi familiari che si sono ritrovati. Ci siamo fondati come struttura, come maso chiuso. Nel periodo di Val Varaita c’era una scelta da operare: Marco è un poeta ed ha sempre avuto il desiderio di esprimere attraverso il teatro il suo pensiero, forse perché già sospettava che, probabilmente, la poesia sarebbe stata accolta meno. Hanno affittato per un mese il Centralino Club in via delle Rosine a Torino e lì Marco ha tentato di dirigere gli attori, tra cui Antonio Tarantino (3). Antonio per Marco è una sorta di maestro di vita. Aveva qualche anno in più di lui e lo guidava nel cammino esistenziale di allora. Gli attori, però, non lo seguivano e invece di venire alle prove andavano in camporella o scappavano. Allora come fare? Sentiva che stava perdendo tempo, così ha pensato di andare in una scuola di recitazione a vedere come si dirigono gli attori. Ed è stato in quel momento che l’ho incontrato. All’età di ventiquattro, venticinque anni, insegnavo in una scuoletta di recitazione torinese, nella mia assoluta ignoranza recitativa. Insegnavo un po’ di tutto perché per questo tipo di scuola basta che ci sei, fai quelle due ore e vai avanti. Mi sono ritrovata in classe Marco Isidori e Lauretta Dal Cin. Come avviene in queste situazioni, la prima cosa che si fa per perdere tempo è presentarsi. Quando Marco Isidori si è alzato da quel banco di scuola l’ho guardato e mi è sembrato subito un marziano. Si era fatto accompagnare da Lauretta perché è un uomo talmente introverso che aveva timore a presentarsi da solo, in una situazione come quella. L’idea principale di Marco era stata quella di mandare Daniela Dal Cin in una scuola per poi farsi riferire le cose, ma non era stata una buona idea.
Quando ero allieva avevo molte difficoltà ad improvvisare, poi è successo qualcosa. Di teatro se ne faceva a livello bassissimo e, se ti andava bene, due volte all’anno. Non parlo solo dei ruoli ma in generale. I testi e le messe in scene erano tristissimi, quasi amatoriali, sebbene fossero considerati professionali. Si faceva un po’ di doppiaggio, di radio, perfino la televisione. Ho fatto addirittura la pubblicità di un materasso e questa esperienza mi ha fatto rendere conto come fossi arrivata alla frutta, perché avevo già dentro di me la necessità espressiva di stare in teatro. Avevo il fuoco! Un fuoco che in certi posti squallidi si spegne subito e che ero decisa ad abbandonare. Come era squallida la radio di cui ho fatto parte. Sì, perché allora in radio a Torino si facevano molte produzioni di sceneggiati e radiodrammi. Prima il lavoro era davvero tanto e a forza di essere chiamati si entrava in una sorta di ruota per cui ciclicamente, una volta ogni venti giorni circa, ti contattavano per qualsiasi cosa c’era da fare. La sala degli studi radiofonici in Via Verdi in cui mi sono ritrovata con il regista era una sala di registrazione con un tavolo attorno a cui gli attori si sedevano, si dividevano le parti e poi si registrava. Un giorno sono stata chiamata, sono andata lì e la mia parte non c’era. Sono andata dal regista e ho detto al direttore che la mia parte non c’era, così lui ha aggiunto a penna sul copione “Seconda cameriera: «Un boccale di birra»”. Quella fu la mia parte. Questo e il poco teatro mi avevano procurato una tale depressione da decidere di smettere. Dopo due mesi e mezzo dal primo incontro con Isidori e la Dal Cin, Marco mi fa una proposta: si è presentato con un tovagliolo del bar con l’idea dell’ovale de Le serve di Genet. C’è stato prima lo Studio delle serve e poi l’Ovale delle serve. Il primo era uno studio, non avevamo soldi ma comunque ci ha dato la possibilità di farci conoscere e così abbiamo ottenuto una piccolissima produzione con il Teatro dell’Arte. Quando Marco mi ha fatto vedere questo progetto che prevedeva una visione particolare da parte dello spettatore che spiava l’azione delle serve attraverso una feritoia, si è aperto un mondo nella mia povera e triste ignoranza. Mi sono detta che se quello era fare teatro, era quello che volevo. Gli ho detto: «Sempre alla tua destra» e siamo partiti. Mi sono licenziata dalla scuola dove insegnavo, ho rifiutato le successive chiamate alla radio e ho cominciato questa avventura dei Marcido con Marco Isidori, Daniela Dal Cin, mia sorella Sabina Abate, Ferdinando D’Agata e Lauretta Dal Cin. Questa avventura dura da quasi quarant’anni. I Magazzini criminali (4) sono stati, insieme a Carmelo Bene e a Marion d’Amburgo, la vera fonte di ispirazione di Marco Isidori. Carmelo Bene era chiaramente inarrivabile per una persona che non aveva mai fatto teatro, mentre i Magazzini avevano una verità diversa. Marion d’Amburgo continua ad essere una musa per lui ed è un po’ la Titina De Filippo della situazione. Con lei siamo ancora in contatto. Altri? No. Andavamo a teatro? Sì, andavamo principalmente per seguire quello che ci incuriosiva o per renderci conto che un determinato tipo di lavoro ci interessava meno. Noi avevamo un’idea precisa e, forse, un po’ autoreferenziali lo siamo sempre stati.
Siamo andati nella soffitta di casa mia. Lì abbiamo avuto dei problemi sia con i vigili urbani sia con gli abitanti della zona, diventata più borghese con il passare del tempo. All’inizio, negli anni Novanta, c’erano molti extracomunitari, soprattutto nordafricani. Adesso sono tutti pakistani e cinesi. Invece, allora, in questo vecchio palazzo di via Piave, c’erano due piani di cantine abitate da centinaia di marocchini. Prima erano i quartieri militari della città, adesso ci sono molti locali e sono diventati di moda, ma allora non c’era niente. Quella casa non la voleva nessuno e hanno stappato una bottiglia quando l’abbiamo comprata. C’era una dirimpettaia napoletana molto anziana e potevamo fare tutto il rumore che volevamo, non c’era nessun problema. Poi, le famiglie borghesi hanno comprato gli alloggi e quando facevamo rumore, chiamavano i vigili. Quando le vicine salivano trovavano Marco con una lunga frusta, noi tutti rasati a zero e, insospettite, hanno mandato anche la polizia. Quando è arrivata noi facevamo finta, in vari punti della piccolissima casa, di farci i fatti nostri. Ci chiesero cosa stessimo facendo ma, per fortuna, la parola “teatro” apre sempre porte magiche: la risposta che i poliziotti ci hanno dato fu: «Quindi state facendo teatro. Ah, beh, allora…». La parola “teatro” mi ha salvata anche negli anni Settanta da un arresto di 48 ore. Ai tempi, avevo un’amica che girava con una Renault 4 rossa. A piazza Vittorio ci fermarono, io non avevo i documenti. Non ce n’era per nessuno se non avevi i documenti. Lei è scesa, ha consegnato i suoi documenti e poi mi hanno aperto la porta e mi hanno detto: «Lei non scende?». Io sono scesa e mi hanno chiesto i documenti mentre, non ricordo perché, magicamente è stata pronunciata la parola “teatro”. Il poliziotto ha iniziato a parlare di una sua compagnia amatoriale che aveva a Bari e così si è dimenticato di chiedermi i documenti e noi siamo risalite in macchina. La situazione di via Piave è durata fino a quando non abbiamo comprato il nostro teatro in corso Brescia, nel quartiere Aurora, un quartiere cerniera, il peggiore che esista a Torino. Il teatro era in un falansterio multietnico, in cui nessuno parlava italiano, neanche gli italiani. Erano tutti calabresi e parlavano il loro dialetto, famiglie operaie che lavoravano all’Iveco e che hanno comprato gli alloggi della zona negli anni Ottanta. C’erano una ex caserma chiusa a cui sono stati applicati, dopo la guerra, dei balconi di cemento tutti uguali e un cortile completamente disastrato. Noi siamo andati proprio lì, in quella che sembrava una città nella città. Il teatro è stato accolto a braccia aperte e con enorme rispetto, ci volevano bene. Piano piano e con grande fatica, siamo riusciti a portare a teatro anche le persone “malfamate” che avevamo intorno. Così facendo ci siamo protetti. Mussulmani e famiglie arabe con bambini, invece, sentono il teatro un po’ distante. Qualche ragazza mi chiede se il nostro teatro è una chiesa, solo perché vedono il rosso, il bianco e gli specchi. Altri ce lo hanno chiesto in affitto per farci delle feste e noi abbiamo ricusato l’offerta. Qualcuno pensa che sia un locale notturno perché ha la luce rossa. Piano piano ci siamo sentiti a posto. Io mi sono trasferita e abito sopra il teatro. La casa è sonora, molto viva. È un quartiere nel quartiere. Posso chiedere alla vicina di sopra di non fare rumore durante gli spettacoli, posso dire: «Anna, per favore, in questo periodo non fare rumore». Lei abita in corrispondenza del palco, mentre la mia casa è sopra il foyer. Io un po’ lo amo e un po’ lo odio quel quartiere. Ad esempio, una volta, il Politecnico di Torino ci ha chiesto che cosa pensavamo potesse riqualificarlo. Era un po’ di anni fa, nel 2015, quando abbiamo fondato il teatro e lo abbiamo inaugurato con lo spettacolo AmletOne! Io allora non seppi rispondere, però una cosa me la ricordo bene: le persone che abitano quei luoghi hanno bisogno di una prospettiva. Lì non c’è prospettiva e non parlo dei calabresi o dei pakistani che hanno comprato gli alloggi, ma di alcune zone di questo cortile in cui gli sfruttatori rendono la vita impossibile. Non c’è luce, i servizi sono fatiscenti… Se un bambino cresce là dentro, qual è la sua prospettiva? E un adulto, dove può trovare un qualsiasi senso di appartenenza? Adesso stiamo parlando di sociologia ma questo fa parte anche del paesaggio teatro, del nostro paesaggio. Il teatro è giusto che sia lì e che ci sia con il suo bianco, il suo rosso dei velluti, le sue luci forti e le sue insegne colorate. È lì che deve stare. Noi ci troviamo bene. Certo non viene a teatro la gente di quartiere ma vengono da Milano. Mi ricordo la scena bellissima di una donna araba con due bambini per mano che, al centro del cortile, mi chiedeva dove fosse il teatro. Io dissi: «Il teatro è qui». Lei però cercava una scuola di teatro per i suoi figli e noi corsi di teatro per bambini non ne facciamo. Allora la indirizzai in una biblioteca di quartiere dove facevano delle attività. Questa donna che cercava per i suoi figli una scuola di teatro mi fece un’impressione straordinaria. C’era il sole, mi ricordo, e al centro del cortile quest’araba bellissima che si aggirava con due bambini vestiti a festa e chiedeva del teatro. Secondo me è quella la prospettiva, ma ci vuole tempo però.
Devo confessare una cosa. Alla Marcido, che sta per compiere quarant’anni, non esiste la democrazia, altrimenti non saremmo ancora qui. Ognuno ha le sue competenze. Questo è un modo che fa parte del mondo di Marco Isidori e che poi si estende anche a Daniela Dal Cin. Come interprete è naturale che ciò che conosci deve essere alimentato da una ricerca continua. Adoro il cinema e, ad esempio, mi ispiro molto a Dreyer (5) proprio per le interpretazioni. Noi facciamo teatro di ricerca estraendo il più possibile quello che la tradizione ci offre di fecondo. Questo è il nostro modo di operare e, generalmente, non è mai cambiato. Io mi rendo contro che abbiamo faticato tanto e, al tempo stesso, di essere stata molto privilegiata perché come attrice non potevo avere di meglio. Da attrice sono passata ad interprete, che è molto diverso. Far parte di un progetto esistenziale, non confinato entro il mestiere. Questa è la cosa che non auguro a nessun: in qualunque attività vi vogliate specializzare, trovate sempre degli spazi “altri”, non specialistici. Non c’è mai stata una linea di demarcazione tra teatro e privato. Non c’è, c’è l’arte e basta e non sono la prima ad affermarlo, altri lo hanno detto e scritto prima di me. È un progetto che continua e se fai parte di un progetto metti a disposizione il tuo corpo. Il lato positivo è che il corpo deve essere mantenuto bene, dovrà essere all’altezza degli oggetti che non cambiano e ai quali noi diamo vita. La bellezza degli oggetti è nel non cambiamento, il mio compito è quello di rivitalizzarli sempre. Quindi devo essere in piena salute. La nostra trasformazione è solo nella debolezza della carne. L’artista vive ogni situazione in modo completamente diverso ogni giorno, ogni sera, attraverso il linguaggio universale del teatro. È stato un progetto comune, uno di quei progetti che ti salvano, in generale. All’interno del gruppo siamo cresciuti, è stata l’evoluzione continua di un’esperienza. Ho fatto in arte quello che ho voluto, ho visto il teatro che mi piaceva. Sì, con Marco Isidori, Daniela Dal Cin e con tutti gli altri sono cresciuta. Non sono invecchiata, sono cresciuta.
Note
1) Erminio Meccario, noto con lo pseudonimo di Macario, è stato un attore e comico di teatro, cinema e televisione torinese. Ha lavorato tra teatro di varietà, riviste e commedie musicali e teatro di prosa. Viene notato nel 1925 da Isa Bluette, famosa soubrette, attrice teatrale e cantante di teatro di rivista del Novecento.
2) Camelo Bene (Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene) fu un attore, regista, drammaturgo, filosofo, scrittore e poeta di avanguardia italiano.
3) Antonio Tarantino, originario di Bolzano ma torinese di adozione, è stato un drammaturgo, attore e pittore italiano.
4) Compagnia teatrale di Firenze fondata nei primi anni Settanta. Primo nome del gruppo fu Il Carrozzone, poi Magazzini Criminali e, dopo la partecipazione al festival di Santarcangelo 1985, Magazzini. Federico Tiezzi, Loriana Nappini (che assumerà poi il nome d’arte di Marion d’Amburgo) e Sandro Tiezzi componevano il nucleo artistico originario. Nel 1980 vince il Premio Ubu come migliore compagnia sperimentale italiana. Oggi parte del gruppo lavora con la Compagnia Lombardi-Tiezzi.
5) Carl Theodor Dreyer, nato a Copenaghen, è stato regista, sceneggiatore, critico cinematografico e giornalista, considerato uno dei massimi esponenti della cinematografia mondiale.