Il viaggio di Esercizi di memoria di Massimo Verdastro continua, tra i luoghi materiali e immateriali delle geografie attraversate dall’artista, attraverso i linguaggi della letteratura di Yukio Mishima, Samuel Beckett, Nino Gennaro, Petronio. Le scene, come tappe di questo percorso, si traducono allora in spazi di trasmissione, dove la scrittura si fa «voce, corpo, teatro».
Nel mio percorso teatrale ha influito molto l’interesse per la pittura e l’immagine, per questo nel tempo ho realizzato anche degli spettacoli da regista (nonostante non mi ritenga un regista a tutto tondo). A un certo punto mi sono dedicato alla regia, soprattutto perché mi dava la possibilità di concretizzare idee e progetti, ma anche a creare gruppi di lavoro con persone con cui mi interessava collaborare. Di fatto, il teatro per me è soprattutto immagine. È in questa prospettiva che si è realizzato il connubio, in particolare, con Federico Tiezzi e Il Carrozzone, che poi è diventato Magazzini Criminali e infine, ora, la Compagnia Lombardi – Tiezzi. Amavo tantissimo i loro spettacoli. Il mio debutto con loro è avvenuto nel 1995, nello spettacolo Pontormo, felicità turbate, scritto da Mario Luzi e interpretato da Sandro Lombardi nel ruolo del protagonista. La nostra collaborazione dura da più di 25 anni e continua ancora oggi.
Di solito, mi innamoro di un testo e inizio a pensare a come si potrebbe mettere in scena. La cosa che mi viene più naturale, ovviamente, è iniziare a pensare a come potrei farlo io, dato che principalmente sono un attore – è il mio mestiere, il mio lavoro – per cui ragiono su come incarnarlo, come agire quella scrittura. Il rischio qual è? Di rimanere fermi alla pagina, mentre il nostro lavoro richiede di allontanarsene e far sì che diventi voce, corpo, teatro. Non ho regole o soluzioni: si sperimenta, si prova, si procede per tentativi, tentando strade finché non trovi quella che sembra la più giusta. Quando mi innamoro di una pagina letteraria voglio trasmetterla e, per farlo, devo restituirla attraverso il corpo e il pensiero, anche perché ne condivido forma e contenuti. A volte c’è più teatro nella letteratura che nei testi pensati per il teatro. Il testo poetico o letterario ha un percorso privilegiato nella mia attività teatrale – una sorta di corsia preferenziale. In principio ho incontrato il romanzo di Yukio Mishima Confessioni di una maschera, i racconti di Samuel Beckett, il lavoro di Nino Gennaro a cui ho dedicato La divina di Palermo (1994), gli scritti di Oscar Wilde su cui ho lavorato per il De Profundis – una ballata per Oscar Wilde (2000) con Francesca Della Monica, il Satyricon di Petronio che ha poi prodotto delle drammaturgie inedite, un grande amore per Sandro Penna per il quale ho realizzato Sandro Penna una quieta follia (2015) con una drammaturgia scritta da Elio Pecora, ed ora, più recentemente, uno spettacolo su Giuseppe Gioacchino Belli.
Mi fa una certa tenerezza questo pupazzo, che è tipo un alter ego ma di un me di molti anni fa. Fa parte di uno spettacolo fondato su due racconti folgoranti, Basta e Da un’opera abbandonata, di Samuel Beckett, che facevano parte di una raccolta francese chiamata Teste morte, pubblicata da Einaudi. Il primo spettacolo fu Basta, a cui l’anno dopo si aggiunse l’altro racconto; alla fine lo intitolammo Hotel Equinozio da Samuel Beckett, perché non potevamo dare il titolo originale per problemi di diritti d’autore. Io ero vestito esattamente come il pupazzo, con smoking e papillon, e ad un certo punto iniziavo a dialogare con lui, che rappresentava il mio doppio. In quel periodo, con Riccardo Liberati, amico e compagno di avventure teatrali, avevamo fondato la nostra Compagnia Teatro Hotel Centrale, in onore dell’hotel di Palermo dove avevo lavorato con Silvio Benedetto.
A tale proposito ho questa fotografia di Letizia Battaglia, scattata nel cortile dell’Hotel Centrale durante una pausa dalle prove di Confessioni di una maschera di Yukio Mishima, ovvero il mio primo monologo di cui feci anche l’adattamento. Per Mishima è stato il primo romanzo, scritto a 25 anni, ed è un testo che ho amato moltissimo quando all’epoca ne avevo 24.
Tramite la sua casa editrice fondata nei primi anni Novanta, Letizia Battaglia pubblicò La divina di Palermo, il testo di Nino Gennaro, in occasione dello spettacolo che proposi nel 1994: lo portavo dappertutto, girando tutta Italia per rivelare la forza poetica di questo autore. Infatti, in molti ne parlarono: questo linguaggio pirotecnico, ricco di contaminazioni, riscosse una forte attenzione da parte della critica teatrale italiana, soprattutto quando lo spettacolo passò per il Teatro Vascello di Roma. Nino Gennaro era un istrione, aveva una capacità oratoria straordinaria: ci raccontava la sua vita, leggeva queste sue poesie fortissime e io mi innamorai di lui e della sua scrittura. Dopo la sua morte, con l’aiuto della sorella e di altre persone vicine a lui, ho raccolto questi materiali e portati in scena. La divina di Palermo è stato il primo, ma poi ho fatto altri cinque spettacoli dedicati ai suoi testi. Era una specie di concerto spettacolo dove io cantavo e recitavo, attraversando gli anni Settanta e Ottanta e quei temi della politica, del sociale e della cultura. Feci realizzare delle scarpe da un ciabattino di Firenze, un po’ hippie ma ormai tardo, con il barbone bianco, i capelli lunghi, il corpo tatuato, nel suo negozio in prossimità della stazione di Santa Maria Novella. Le disegnò la costumista Claudia Calvaresi: poi potevi andare lì e lui te le realizzava, era una specie di luna park.
A Firenze ho vissuto per molti anni. Insieme a Francesca della Monica, cantante, esperta di vocalità e pedagogista straordinaria, abbiamo realizzato molti progetti. A uno di questi è legato un altro oggetto che ho portato: le “sise” di Fortunata. Dietro, c’è lo stretch, perché andavano messe e tolte in scena con una certa rapidità. Voi mi direte: chi è Fortunata? Questa signora è un personaggio del Satyricon di Petronio: uno spettacolo che è stato il risultato di quasi cinque anni di lavoro. Nel 2008 ho iniziato con un laboratorio teatrale di indagine e poi nel 2012 l’ho presentato nella sua interezza al Teatro Vascello. Ho cominciato con un gruppo di attori, dei quali molti sono rimasti fino alla fine, andando avanti a tappe e realizzando cinque spettacoli che ho denominato “capitoli”. Ognuno era un episodio del Satyricon. Essendo tratto da un romanzo, per questo progetto ho coinvolto altri drammaturghi, con i quali avevo già un rapporto di stima e amicizia, chiedendo loro di tradurre teatralmente quelle pagine: Luca Scarlini, Antonio Tarantino, Marco Palladini, Letizia Russo, Lina Prosa, Stefano Massini e Magdalena Barile. La scommessa era di mettere insieme e far convivere voci diverse ed i risultati sono stati ottimi, anche considerando che il Satyricon è effettivamente una commistione di linguaggi: c’è il latino delle strade, quello altro, quello contaminato dalle inflessioni delle altre lingue, delle altre vulgate. Il frammento di Fortunata, in questo senso, è emblematico. Nell’episodio più noto della cena di Trimalcione, liberto, ex schiavo arricchito, c’è sua moglie Fortunata che è una tuttofare: organizza le cene, invita gli ospiti, dà gli ordini a cuochi e servi, eccetera, muovendosi continuamente. Ma Fortunata non parla, parla solo Trimalcione, logorroico, che racconta tutta la sua vita e le sue storie ad ogni commensale. “Cane” è l’unica parola che lei pronuncia, facendo una scenata al marito beccato a palpare un ragazzino. Quello che avviene di conseguenza è un litigio da commedia all’italiana. Io, che interpretavo Trimalcione, ho pensato: «Secondo me, Fortunata è l’altra faccia della medaglia, il femminile di Trimalcione», e volevo farla parlare. Allora Letizia Russo ha scritto per lei un monologo spassosissimo, in dialetto romanesco, come se venisse dalla provincia. Quindi, a un certo punto Trimalcione diventava Fortunata e diceva: «Perché te chiami Fortunata? – Perché io me so me so’ invendada una nova figura e j’ho pure dato un nome. Questa nova parola l’ho presa da ‘a curtura barbara. Perché pe’ esse’ intelligendi e creadivi tocca sempre guardà all’esteri pure se vanno ‘n giro co’ ‘a gonnellina e co’ ‘e corna ‘n testa. Questa nova figura se chiama donna menager. Menager è parola barbara, sassonica a dilla tutta, che vor di’ che ‘a donna deve da sta ar posto suo, e va bè, ma deve da’ mparà l’economia, l’intrallazzi, la gara de’ i gioielli co’ le moji dell’artri e la mortipricazione dei sesterzi. L’effetti colladerali? So’ solo che benefici: magni tanto, campi bene e in più c’hai la stadua assicurata accanto alla tomba der conzorte, fatta dall’artista celebre più in voga che ce sta, Abinna.». (applausi)