Qui comincia l’arte, qui la finzione si fa tempo
più vero di quello che doloroso scorrendo
tocca le tue membra: (…) Ma il tuo rifugio nel
sulfureo utero del teatro è troppo segregato e profondo.
Attilio Bertolucci, La camera da letto
Ci stiamo chiedendo da un po’ di tempo qual è il significato profondo dell’accadimento scenico e quale interlocutore intercetti, a cosa assolva (se crediamo debba ancora assolvere a una pur minima funzione aggregativa per esempio) e di quali costruzioni figurative e drammaturgiche si serva. Ci chiediamo quanto e come il “reale” entri oggi nell’oggetto-opera scardinando i meccanismi “rappresentativi” di quei processi (artistici), o invece quali effetti produca una certa fiction (ch’è un atto non della realtà per la scena ma dell’immaginazione per la scena) sul gesto d’arte, ovvero quali parole consumate o gesti impolverati persistono nella forma-spettacolo della presunta tradizione? Ci chiediamo, altresì, quale sia il senso oggi – al di là di una possibile riuscita confezione – di quelle paradossali e improbabili “recitazioni” che insistono su un narcisismo da étoile fuori tempo, seppure coccolato, questo narcisismo, da un gusto retrò che non smette di sovraintendere stagioni o programmazioni sostanzialmente ovunque. Leggere il presente con “forme” attendibili o parole prossimali è la scommessa oggi, superando – ci stiamo raccontando da un po’ – la rigida compartizione disciplinare dove, ma ormai dovrebbe essere un concetto acquisito, il teatro, la danza e la performance condividono pratiche e attitudini in continuità e contiguità con le esperienze concettuali e relazionali delle live arts. Una investigazione di una libertà dialettica dell’azione scenica, capace di creare contesti efficaci e “veri”, ma soprattutto inaspettati altri pubblici nell’orbita di nuove comunità (seppur provvisorie). A fronte di una impostazione ancora fortemente etnocentrica dell’Occidente, che tende ad appiattire o rimuovere la cultura delle differenze, le narrazioni di una certa scena del contemporaneo, in Europa così come anche in Italia, tendono invece a colmare le nuove forme di retromania culturale e politica a cui questo presente è esposto, inventando modalità di relazione e di creazione artistica che si fanno invece magmatiche e seriali. Per questa scena l’opera si lascia derubricare in nocumentaries o in “affreschi” affettivi i cui temi incontrano spesso questioni come l’identità o il genere, aprendosi a umanità il più delle volte straordinarie; il gesto ridefinisce lo spazio condiviso adottando un vocabolario condiviso, il tempo storico non è ambiguo, non è massimale, ma frastagliato e polverizzato nell’”adesso” del tempo scenico. La parola “spettacolo” si scompone in sottosistemi e dispositivi anarchici, allergici a scuole e ad accademie.
Family Affair – Roma XI è il Progetto di ZimmerFrei “depositato” nello spazio del Teatro India, diventato per l’occasione il luogo-contenitore di aggregati umani, e che ci sembra percorra questa strada di paradigma auto-narrante, rendendo partecipi quei “cittadini-attori” portatori delle loro esistenze fatte di ricordi, relazioni e complicazioni di tutti i giorni, un radicale esperimento meta-artistico dove lo spazio privato assurge a epos quotidiano. Family Affair possiamo per comodità chiamarlo un intervento di teatro partecipativo, ma è piuttosto un efficace strumento di scandaglio antropologico che il gruppo di artisti basati a Bologna esportano dappertutto in Europa e oltre; come nella prassi dell’etnografia, registrano, filmano, assemblano testimonianze familiari per poi riconvertire questo patrimonio di umanità e di documentazione in una operazione di memoria orale, visiva e di azioni dal vivo, spostamenti e ripetizioni di fronte a spettatori, dove gli stessi “raccontatori” (madri, figli giovinetti, nonni e parentame vario) “presentano” loro stessi con quella (rara) capacità di tradurre un documento in esperienza. Roma XI è un quartiere anomalo della città, ponte di diverse concezioni urbanistiche e sociali e negli ultimi anni anche etniche, qui i tradotti viari di viale Marconi trovano la vicinanza di Porta Portese che a raggiera raccoglie pezzi di viale Trastevere come di Ostiense. Gli abitanti di queste zone sono stati gli interlocutori di ZimmerFrei, i quali per entrare in empatia con loro hanno spostato continuamente il proprio posizionamento verso un ascolto empatico. Hanno “coabitato” allora sul palcoscenico del Teatro India, in una disponibilità commovente a “svelarsi”, nuclei familiari diversissimi fra loro alla ricerca di un lessico prossimale a se stessi e agli altri, raccontando qualcosa di sé, di privato e che ritorna a una dimensione pubblica nella quale anche lo spettatore si ritrova e partecipa; i video li ritraggono come “assoli” di persone sedute e ferme e in silenzio, i più con gli occhi chiusi, ed è chiaro che probabilmente stanno pensando, immaginando un altro tempo delle loro esistenza, mentre fa loro da controcanto al microfono una spiazzante verbalizzazione, in scena, di racconti precedentemente “depositati” di un altro dei componenti di quel nucleo familiare che ne impersona i pensieri e i desideri. Il lavoro del gruppo bolognese è potente e lieve, un discorso sulle possibili significazioni dell’idea di famiglia che compendia attuali genitorialità, credibili fratellanze e vicinanze persino intime tra caratteri inconsueti. Una grande operazione scenica, un’àncora di salvezza per il teatro.
Family Affair – Roma XI
concept ZimmerFrei
con Diana Cologgi, Gianni Cologgi, Lia Giartosio Goretti, Tommaso Giartosio, Andrea Giartosio Goretti, Franco Goretti, Romeo Hadzovich, Claudio Larena, Chiara Maraldi, Sofia Naglieri, Greta Palucci, Matteo Palucci, Sevla Sejdic, Fiorella Zorri e con la partecipazione in video di Elia Abkari, Younes Abkari, Javad Abkari, Paola Barberini, Roberta Barbosi, Arianna Cologgi, Cristian Gasbarri, Dario Gasbarri, Filippo Gasbarri, Giorgia Gasbarri, Cloe Hadzovich, Jhonatan Hadzovich, Vasy Hadzovich, Angelina Hrustic, Fatima Hrustic, Selene Larena, Alessio Marras, Emma Palucci e i gatti Gemma Liquirizia e Yuki
regia e video Anna de Manincor
suono Massimo Carozzi
assistente alla regia Muna Mussie
assistente all’organizzazione Gaia Raffiotta
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
coproduzione Network Open Latitudes
con il supporto del Programma Cultura dell’Unione Europea e Film Commission Emilia-Romagna.
Visto al Teatro India di Roma l’8 febbraio 2020.
Prossime repliche, sempre al Teatro India, il 29 febbraio e il 1° marzo 2020.