“Femininum Maskulinum” di Giancarlo Sepe. La storia non è ordinata di Chiara Crupi

Foto di Manuela Giusto

«La Storia è scritta da donne e uomini, artefici e vittime di loro stessi», scrive Giancarlo Sepe per presentare la sua nuova esperienza teatrale, Femininum Maskulinum, andata in scena a Roma al Teatro La Comunità. La storia – aggiungiamo – non è ordinata bensì magmatica, ambivalente, si presta a manipolazioni e riscritture, non sempre più lucide delle precedenti. Cercare di districarne i fili in un succedersi organizzato di accadimenti, fatti e date non garantisce la restituzione di un senso; analizzare logiche, cause e ragioni non ci permette necessariamente di comprenderla. A volte è un sentiero laterale a portarci a destinazione e può capitare quindi che un semplice fatto teatrale, uno spettacolo, offra un’altra prospettiva, diversa, illuminante. Può capitare dunque di scendere una scala ripida e trovarsi – nel 2025 – nelle viscere di una cantina storica di Roma e respirare momenti, sospensioni, tracce che si imprimono nella percezione e nella memoria. Che sia frutto del potere della musica, che in questo lavoro – come in altri del regista – vanta una ricerca molteplice e raffinatissima, agendo con forza e presenza pari a quella di un attore, che sia dovuto alla “sapienza del ritorno” di Sepe su temi e luoghi a lui cari, o ancora all’architettura organica dei corpi dei giovani attori – un insieme armonico di generosità e disciplina, di organizzazione plastica e vitalità – è evidente che Femininum Maskulinum restituisce un’esperienza intensa, condivisa dal gruppo affiatatissimo di 11 giovani artisti, con in più la partecipazione di Pino Tufillaro, che si presentano immediatamente come partecipi di una macchina teatrale efficace e perfetta: canto, danza, musica, coralità, testi brevi e affilati.

Foto di Manuela Giusto

È uno spettacolo sullo smarrimento e sulla fuga, sulla dissidenza e sull’oppressione, ambientato in Germania prima dell’ascesa di Hitler, nel 1933, e negli anni immediatamente successivi. Protagonista è un ambiente, quello di artisti e intellettuali del tempo, di cui il regista fornisce in alcuni casi un profilo esplicito, in altri suggerisce presenze.
Sulla parete in fondo alla scena, alcune date come scritte sui muri: 19, 1929, 1933 orientano l’arco temporale della narrazione, che si districa in quadri. La prima immagine si apre con due nudi – il maschile e il femminile – in proscenio: una specie di Eden, un Principio. Irrompono poi i rumori di una città frenetica, chiassosa e in subbuglio, e quei corpi improvvisamente si rivestono, subito dopo travestendosi con uno scambio d’abiti, come angeli caduti nel mondo, in un periodo storico le cui identità di genere sono variabili e plurime.
È la Germania della Repubblica di Weimar, di cui Berlino è capitale vibrante di multiformi fermenti artistici e culturali, all’insegna della libertà di espressione, in tutte le sue declinazioni. La libertà sessuale e la fluidità di genere sfidano, in primis fra gli artisti, i principi della morale borghese. La liberazione dei costumi, ma anche della satira politica, trovano massima espressione nei cabaret.

Foto di Manuela Giusto

E come in un cabaret le scene si susseguono con un ritmo serrato che sembra scandire il precipitare degli eventi: Thomas Mann (Pino Tufillaro) nel 1929, riceve il premio Nobel per la letteratura raggiungendo l’apice del successo. La musica e i balli americani seducono, con la complicità della radio. Compare un inedito Billy Wilder, ebreo austriaco e futuro esule regista hollywoodiano, che sbarca il lunario facendo il ballerino per signore sole nei caffè berlinesi. Nel 1930 il film indipendente Uomini di domenica ritrae il popolo berlinese nel tempo libero e nel suo desiderio di libertà, immortalando per sempre un’epoca che sta per essere cancellata dall’ascesa del Nazismo: questo momento di gioventù sospesa e piena di speranze viene rievocato in modo estremamente suggestivo nella scena di una domenicale gita al lago, con poche tracce sonore e azioni fisiche, dove ancora corpi si denudano e si rivestono, ma per nuotare e prendere il sole. Ancora una vestizione in pubblico questa volta suggerisce l’ascesa di Hitler, che assume la carica di Cancelliere tedesco nel 1933.

Foto di Manuela Giusto

Appare più volte come un uomo turbato e debole, che cerca e trova alleanze nelle frange più violente della società, a cui consegna armi, identità, divise legittimanti. In brevissimo tempo proibirà ogni anelito democratico, le libertà culturali, politiche, sessuali e di genere (con evidenti contraddizioni, data l’omosessualità dilagante fra i suoi soldati e le sue stesse condotte nel privato).
Il passaggio è netto. Ed è qui il cuore dello spettacolo. Nell’inquietudine dipinta sui volti, nello stupore e nell’incredulità, nella paura e nella fuga di un intero ambiente che non ha più patria, costretto a emigrare, a nascondersi. In una scena straordinaria si materializza l’incubo di uno stupro di massa, che sembra prima solo immaginato, poi reale. Per tutti il destino possibile è l’esilio oppure la morte. In un ventaglio di varia umanità, si delineano le diverse reazioni degli artisti di fronte al Nazismo: la posizione di chi, come Mann, intellettuale affermato, preoccupato per il suo lavoro e per la moglie Katia, di origini ebree, cerca in un primo tempo un compromesso e l’implicita mediazione – e il tempo in scena si ferma di fronte alla stretta di mano fra Hitler e lo scrittore, che finalmente compie un gesto esplicito rifiutando il suo abbraccio. Risposta differente è quella degli artisti che si schierano subito contro il totalitarismo, come fecero ad esempio Klaus ed Erika Mann, suoi figli anch’essi scrittori, e – più esplicitamente del padre – omosessuali. Ogni cabaret opporrà una clandestina resistenza. Erika aprì a Monaco il cabaret Pfeffermühle (Il Macinapepe), dove si esibiva di notte Therese Giehse, grande attrice classica e sua amante: riusciamo a seguire a tratti il loro tormentato amore.

Foto di Manuela Giusto

Questo e altre inquietudini appaiono in uno spettacolo colto ma non intellettuale, a cui sta a cuore l’essere umano nelle sue contraddizioni e diversità. Di un regista come Giancarlo Sepe, classe 1946, il cui viaggio artistico è partito quasi sessant’anni fa, firma indiscussa della nostra storia teatrale, acuto sperimentatore con ben oltre cento regie alle spalle e collaborazioni con i più grandi artisti italiani, nulla si può dire senza cadere in una poco utile ridondanza. Ma è certamente interessante, da spettatrice, intravedere in Femininum Maskulinum qualcosa di sincrono al nostro tempo. Si presenta come un affresco storico che, mescolando le carte, sembra guardare il presente negli occhi, con un linguaggio comprensibile anche alle generazioni più giovani.
Impossibile che tutto questo non si rovesci nel mondo di oggi e non produca risonanza. Attori bravissimi, che non sono mai soli quando prendono la scena e non sono mai invisibili quando si muovono in ensemble: la loro eccellenza è nel saper abitare la scena al plurale senza esserne sopraffatti. D’altronde l’intero spettacolo dà voce ad una moltitudine. E in quella moltitudine, in quello smarrimento, nelle fragili libertà contraddette da una violenza, che occhieggia il presente. L’autoritarismo ha molte facce, come suggerisce il regista attraverso il dialogo ideale fra Al Capone in America e Hitler in Germania.
«Sarebbe bello essere sé stessi e rimanere in un posto qualunque senza agguati o soprusi da sopportare». L’anelito di Sepe non sembra affatto invecchiato e la riflessione di intellettuali e artisti sul proprio presente, non si può eludere in qualsiasi periodo storico, se non a caro prezzo.

Foto di Manuela Giusto

Femininum Maskulinum

uno spettacolo di Giancarlo Sepe
con (in ordine alfabetico) Sonia Bertin, Alberto Brichetto, Lorenzo Cencetti, Chiara Felici, Alessia Filiberti, Ariela La Stella, Aurelio Mandraffino, Giovanni Pio Antonio Marra, Riccardo Pieretti, Alessandro Sciacca, Federica Stefanelli
e con la partecipazione di Pino Tufillaro
musiche Davide Mastrogiovanni | Harmonia Team scene Carlo De Marino
costumi Lucia Mariani
disegno luci Javier Delle Monache
assistente costumista Isabella Melloni
scene realizzate dal Laboratorio di Scenografia del Teatro della Pergola, macchinisti realizzatori Duccio Bonechi, Cristiano Caria, Francesco Pangaro, Filippo Papucci
produzione Teatro della Toscana.

Teatro La Comunità, Roma, dal 28 dicembre 2024 al 19 gennaio 2025.