Festival Inequilibrio: il mare bagna le coscienze di Maria Francesca Stancapiano

È un mare che riporta echi lontani di sirene, di una favolosa Medea per strada (Teatro dei Borgia) che tiene fermi gli animi degli umani terreni imponendo non solo una verità da ascoltare e vedere, ma anche quella propria da cui non poter fuggire. È un mare che porta gli ossi di seppia di una letteratura profonda, studiata, riuscita quella del Circo Kafka, in cui un processo è vissuto da marionette, trapezisti e animali impagliati senza parole ma con suoni gutturali emessi. Sono onde che fanno fluttuare l’amore proibito tra le danze di un Pelléas et Mélisande o dove l’uso del corpo si ribella alla cultura del potere con Olympia. Sono sassolini che rimangono incastrati nei sandali durante un Cena delle beffe, in cui Luca Scarlini e Antonella Questa cercano, in maniera magistrale, ironica e divertente, con un ritmo tagliente, di sciogliere i nodi di un periodo storico che continua, nella sua eco, a fare vittime e carnefici.
È il mare che ha bagnato la ventiduesima edizione del Festival Inequilibrio tenutosi dal 25 giugno al 7 luglio a Castiglioncello e che ha proposto, in dodici giorni, opere di teatro, danza, musica e arte performativa sia all’interno della suggestiva residenza del Castello Pasquini sia presso il Teatro Solvay o addirittura in site- specific naturali, come l’acqua del mare, appunto. È stato un festival che ha rispettato l’animo umano accarezzandolo con grazia e cercando di affondarlo negli abissi più intimi senza mai lasciarlo solo, offrendogli, anzi, l’opportunità di rispecchiarsi in una società incatenata da una storia che continua a non essere ascoltata e che rimane trasparente, impercettibile, a tutti con gli errori che l’umanità intera continua a fare, causando danni in un microcosmo che poi si riversano nel macrocosmo in maniera non indifferente.
L’arte, però, può salvarci. L’arte può essere la nostra imbarcazione, dove salire e insieme scegliere la giusta rotta “in equilibrio”, appunto, senza ritrovarci su una zattera della Medusa, quella su cui nel 1816 gli sfortunati occupanti vissero un’esperienza terribile che condusse alla morte la gran parte di loro.
In Inequilibrio, Angela Fumarola e Fabio Masi, i direttori artistici, ci offrono la grazia del confronto, non solo sul teatro ma anche sulla vita in spazi esterni e freschi. Perché la vita, alla fine, non è altro che un prolungamento del teatro (o viceversa?). E quale posto migliore se non la natura?

 

Medea per strada

È un caldo afoso pomeriggio di estate. Quei pomeriggi in cui i ricordi pressano la mente, in cui il sudore si maledice in ogni istante perché si attacca ovunque, contro ogni nostra volontà. Quei pomeriggi in cui necessitiamo di un racconto. Un uomo ci fa entrare in sette dentro a un pulmino portandoci per strada. Nel mentre, siamo obbligati a guardarci, a respirare gli odori e i sudori gli uni degli altri. Siamo obbligati a essere in un racconto nostro, pur non volendolo, inizialmente, perché si sa le conoscenze forzate non fanno mai subito piacere. Uniti da un’iniziale assenza, quest’ultima, subito dopo, si materializza in una donna che, trascorsi pochi metri, sbatte con veemenza il vetro della autovettura per entrare e viaggiare con noi. Irrompe con una borsa e una sacca. Non ha un nome, ma ha due occhi enormi verdi, bellissimi, un sorriso che potrebbe giustificare tutto il male del mondo. Una visibile parrucca nera lunga e un forte accento romeno. Senza nome, perché in Lei potrebbero rispecchiarsi tutti, uomini e donne indistintamente. Insieme attraversiamo le strade di quel caldo pomeriggio in cui ogni pensiero viene enfatizzato dall’aria pesante e dai suoi occhi. Le sue parole sono il verbo di una nostra verità dalla quale non possiamo fuggire perché costretti in un luogo molto piccolo. Dopo qualche curva è naturale interagire con la protagonista, grazie al suo racconto, quello di una donna arrivata in Italia molto giovane alla ricerca sfrenata di un futuro certo, ma incerto nella sua stessa costruzione. Un futuro in cui tuffarsi in maniera cieca, chiudendo gli occhi in un abisso pieno di pescecani a cui tendere la mano, facendo finta di non vedere il male o provando a giustificarlo almeno all’inizio. Un male che porta noi a compatirla nel racconto per essere diventata una prostituta sebbene non per scelta, ma per amore di un uomo da cui ha avuto dei figli: «E che dovevo fare io?», chiede fissando e tatuando gli occhi verdi, bagnati e materni (che anticipano la tragedia), nei nostri. Che avrebbe dovuto fare? Alla fine, lo spettatore non può giudicare, sente di non averne il diritto. Quella storia potrebbe appartenergli, anche se sa di avere di fronte una maschera, una personam che, tuttavia, incarna tante donne immigrate (e non solo) avviluppate nel commercio del proprio corpo con l’inganno anche dell’amore. Il furgoncino si ferma in mezzo al niente. Il sole è sempre più caldo, sappiamo che ci sarà un’evoluzione nel racconto. Lo vuole il titolo e lo vogliono gli occhi dell’interprete che da dolci si sono trasformati in quelli di una donna delusa e poi arrabbiata. Lo sentiamo dal cambio di tono, dalla durezza della voce. Quel «E che dovevo fare io?» diventa perentorio, freddo. La leggerezza si allontana e, mentre si strucca, con collera racconta del matricidio come la celebre tragedia di Euripide vuole. Lo fa con fretta, senza indugiare troppo, servendoci la realtà nuda e cruda. Intanto, si toglie anche la parrucca. Non ha nome, non ha un’identità vera e propria. È una Medea donna (o uomo?) costretta dall’inganno, mutata nella sua purezza. Una Medea che, improvvisamente, ci chiede, dopo 60 minuti di viaggio sul pulmino, di scendere, lasciandoci vuoti e orfani della sua presenza.

Foto di Andrea Macchia

 

Circo Kafka

Lo spazio è stretto. È quello della Sala del Camino all’interno del Castello Pasquini. Pochi posti. Ammucchiati al buio, senza molta possibilità di respirare. Obbligati a sederci, senza invadenza. Obbligati da un uomo in divisa, con baffi, un personaggio simpatico, pieno di tic a cui facilmente si vuole bene e da cui difficilmente ci si può staccare. Quell’uomo, poi, si spoglia e rimane in camicia da notte per, infine, indossare una toga da giudice. Uno e trino. Uno e nessuno o, forse, uno e tutti. Agisce come una marionetta, fluttua con il corpo al suono della musica di Johannes Schlosser che fa vibrare un corno, mentre Roberto Abbiati (l’unico performer in scena) suona a tratti una cornamusa e compie le solite azioni: si sdraia su di un letto obliquo, accende e spegne un abat-jour collocata sopra la testata del letto decorata, quest’ultima, da un gatto nero che urla e, al fianco della stessa testata, la ruota di una bicicletta, un contrabbasso, una sedia, una stampella. La scenografia ha dell’onirico, quasi un agglomerato di oggetti posizionati senza senso. Un senza senso talmente forte che, paradossalmente, porta a far riflettere sul senso: il senso di cercare in mezzo alla moltitudine di oggetti che, non è un caso, abbiano proprio quel disordine. Lo spettatore sta invadendo (seppur, come accennato all’inizio, sotto invito) l’intimo di una persona che non ha alcuna voglia di servire i canoni di una società a partire da quello più semplice come l’uso della parola per una difesa inesistente. Sono suoni, quelli pronunciati, quasi afasici che inizialmente suscitano la risata proprio per la mancanza stessa della parola.
L’apparente disordine tra gli oggetti, maneggiati con cadenza “passiva”, genera un rumore che diventa un suono unico, speciale. Un suono che sa di fiaba e che porta a riflettere.
“E se qualcuno invadesse la mia vita (la mia stanza) senza avvertirmi pretendendo da me una verità che io non posso dare, perché non ne conosco l’esistenza, perché non ho violato alcun codice”. Successivamente, si comprende che l’intera performance accompagna lo spettatore al divertimento, che rimane, però, amaro. Si sorride e si tradisce immediatamente il sorgere della risata perché c’è compassione. Gli occhi di Abbiati sgranati verso lo spettatore provocano stupore e continue domande, dopo aver superato la soglia dell’imbarazzo nell’essere coinvolti, se vogliamo, in un processo che riguarda tutti all’interno di uno spazio troppo stretto per evadere.

Foto di Antonio Ficai

Medea per strada

con Elena Cotugno
progetto scenografico Filippo Sarcinelli.

Festival Inequilibrio, Castiglioncello, dal 27 al 30 giugno 2019.

Circo Kafka. Studio

da Il processo di Franz Kafka
con Roberto Abbiati
e la partecipazione di Johannes Schlosser
regia Claudio Morganti
musiche a cura di Claudio Morganti e Johannes Schlosser.

Festival Inequilibrio, Castiglioncello, 30 giugno 2019.