Le ferite ci abitano e noi abitiamo loro. È questo ciò che il poeta francese Joë Bousquet, gravemente colpito in battaglia e rimasto paralizzato, sembra voler esprimere in questo verso: «La mia ferita esisteva prima di me, io sono nato per incarnarla». Ma come si abita una ferita?
Attraversando le strade del borgo di San Ginesio, nelle Marche, colpito gravemente dal terremoto del 2016, si nota subito che molte facciate delle chiese e degli edifici sono avvolti e allo stesso tempo ingabbiati da imponenti impalcature di legno e acciaio, che nascondono e svelano i segni dolorosi di quell’evento. È proprio qui, dove il ricordo di quei giorni è ancora tangibile, che ha preso coraggiosamente vita il Ginesio Fest, festival delle arti teatrali ideato dall’attore Remo Girone, che quest’anno ha creato un vero e proprio momento conviviale, leggendo per tre giorni all’ora del tramonto, con il panorama dei Monti Sibillini alle sue spalle, alcuni passaggi de La crociata dei bambini, il testo di Marcel Schwob, che racconta la storia di un gruppo di bambini che volevano riscattare il Santo Sepolcro.
Inoltre, ad arricchire questa terza edizione del Festival è la direzione di Leonardo Lidi, il quale ha coinvolto i ragazzi dello Stabile di Torino, che hanno restituito al pubblico, attraverso delle letture, il risultato del lavoro svolto durante il laboratorio di quest’anno.
Ci muoviamo da uno spazio all’altro di San Ginesio, prendendo confidenza con questo borgo che ha il potere di diventare subito familiare. Accade poi che nel Chiostro di S. Agostino, mentre Lino Musella si esibisce in L’ammore nun‘è ammore, alzando lo sguardo al di sopra del porticato che lascia il cielo scoperto, si venga sorpresi dallo sfavillare lento di una stella cadente. Musella recita tutto d’un fiato 30 sonetti di Shakespeare abilmente tradotti in napoletano da Dario Jacobelli, che è stato – come Musella stesso ricorda – un protagonista della scena culturale di Napoli dalla fine degli anni Settanta e che ha dedicato l’ultima parte della sua vita proprio a questa particolare traduzione che lui definiva “a tradimento”.
A introdurre e ad accompagnare Musella durante tutto lo spettacolo è il musicista Marco Vidino che tra percussioni e strumenti a corda ricrea un’atmosfera onirica come quella shakespeariana del Sogno di una notte di mezza estate.
Il tradimento operato da Jacobelli dà vita a un vero incanto di cui Musella riesce a restituire tutta la bellezza. La musicalità della lingua napoletana, unita al tono caldo della sua voce, incontra l’intensità dei versi di Shakespeare. Musella si agita sul palco spostandosi di tanto in tanto sotto il porticato, mutando forma a ogni sonetto, come se ogni componimento esigesse una trasformazione. In fondo l’amato non è l’agitato per eccellenza? Sempre in attesa di una risposta, di un segnale, vive per questo. Musella attraverso la sua gestualità e il suo cercare distrazioni in qualsiasi oggetto gli capiti davanti, restituisce magnificamente la sua condizione. A muovere il suo corpo nello spazio è proprio il desiderio. Come scrive Barthes: «Io desidero il mio desiderio, e l’essere amato non è altro che il suo accessorio». In quasi tutti i sonetti scelti è espressa l’idea che l’oggetto amato inventi il linguaggio perché esistendo inventa il mondo. È solo in funzione di questo amore che si scrive, che si pensa, che si vive. Si tratta di un sentimento assoluto e perciò sciolto da ogni vincolo temporale e spaziale, idea questa espressa nel Sonetto 116 che dà il titolo allo spettacolo: «Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento o tende a svanire quando l’altro s’allontana». Quando alla fine Musella si benda e si orienta nello spazio, chiedendo allo spettatore di guidarlo tenendolo per mano, ecco che quell’accecamento proprio dell’amare emerge in tutta la sua potenza. Ecco che le parole di Joë Bousquet ci vengono ancora una volta incontro. Amare in questo modo è abitare la ferita che l’altro ha creato in noi.
Attraverso uno strano gioco temporale, Shakespeare, di cui finora abbiamo ascoltato i sonetti, si fa presenza viva sul palco nello spettacolo Shakespearology. A interpretarlo è Woody Neri che risponde alle domande di una serie di curiosi di cui udiamo soltanto la voce. Shakespeare è esistito veramente? Cosa ha combinato in quei setti anni avvolti dal mistero? È vero che era un donnaiolo come si racconta? Attraverso l’espediente narrativo di un’intervista impossibile, la compagnia Sotterraneo ha l’intelligente intuizione di offrire una ricostruzione dettagliata e approfondita delle sue vicende biografiche e della sua esperienza teatrale. A rendere ancora più originale questa scelta, è il rovesciamento finale, quello in cui è Shakespeare stesso a incuriosirsi sullo stato attuale del teatro, sulla difficoltà di ottenere finanziamenti pubblici e di vincere bandi.
Woody Neri, con grande abilità, passa dall’intonare e suonare con la chitarra una canzone di Bob Dylan all’inscenare le morti più famose delle tragedie shakespeariane: da quella di Giulio Cesare a quella di Ofelia. Lo fa con ironia, dissacrando e allo stesso tempo omaggiando il drammaturgo più grande di tutti i tempi.
Ginesio Fest, San Ginesio (MC), dal 18 al 25 agosto 2022.