Suscita una forte emozione accostarsi alla materia che Katia Ippaso assembla e analizza, con appassionati rigore e trasporto, nel bel volume L’isola che c’era: grandi maestri al Teatro Ateneo (1980-1995), pubblicato per Editoria & Spettacolo pochi mesi fa e presentato al Valle di Roma a metà dicembre. L’emozione nasce dal fatto che questo affascinante racconto di un “luogo” vibra in ogni pagina di quanti quel luogo hanno abitato, amato, animato, frequentato, difeso. La narrazione dello spazio vira, dunque, verso una narrazione di umanità, di trasmissione di saperi e sapienze creative, di pratiche artistiche lasciate in eredità ai posteri, di incontri fertili, di insegnamento nel senso alto del termine.
Fisiologicamente connesso con il Dipartimento di Discipline dello Spettacolo dell’Università “La Sapienza” (facoltà di Lettere) e con il Centro omonimo, il Teatro Ateneo è stato un vettore nevralgico di pedagogia e cultura teatrali (per non dire di cultura tout-court) grazie agli straordinari progetti di cui, nel quindicennio indagato, sono stati protagonisti alcune delle maggiori personalità della scena nazionale e internazionale del Novecento. Progetti che avevano tutti, nella loro intrinseca originalità, l’obiettivo di educare, di nutrire i giovani, di tramandare una lingua, un’esperienza, un’energia vitale. Da Eduardo a Carmelo Bene, da Jerzy Grotowski a Peter Brook, da Eugenio Barba a Dario Fo, da Peter Stein ad Anatolij Vasil’ev, da Vittorio Gassman a Leo de Berardinis fino alle visioni sperimentali dei Magazzini, di Carlo Quartucci e di Rem & Cap, il volume di Katia Ippaso ricostruisce la storia di una pluralità di vocazioni che ci vengono presentate come doni impareggiabili, complice l’innesto tra la ricchezza dei documenti messi in dialogo tra loro, l’ariosità di una prospettiva critica sempre in levare e una sensibilità interpretativa davvero raffinata. Questo racconto riflette, infatti, anche l’entusiasmo di un’adesione intima a quel fervore, a quel lievito di bellezza, di profondità, di ricerca che, da studentessa prima e da studiosa e critica poi, l’autrice ha conosciuto e condiviso personalmente.
Motivo per cui L’isola che c’era si impone pure come un doveroso omaggio a Ferruccio Marotti, allora direttore del Teatro Ateneo, a tutti i docenti che hanno contribuito a trasformare quel luogo in un crocevia di cultura e scambio culturale (prima tra tutti, Antonella Ottai), ai cittadini/spettatori, ai giovani, studenti universitari e/o aspiranti artisti che fossero, che hanno risposto così numerosi ad ogni iniziativa. Un omaggio all’idea stessa che accademia e artigianato teatrale possano e debbano camminare mano nella mano. Che la riflessione sul nuovo, sui linguaggi più eclettici della scena, e soprattutto sull’attore (tanto più laddove l’attore è anche autore e basti considerare Eduardo e Shakespeare, qui così presenti), non rinnega la prassi laboratoriale, la creatività del processo. Anzi, se ne nutre e la nutre. Nutrendo, a ben vedere, la genesi stessa del libro. A tal riguardo vale senza dubbio la pena riportare quanto annota l’autrice stessa nella prefazione: «Questo libro scandisce il movimento lento del tempo: sicuramente del mio personale, ma anche il tempo storico di un’avventura felice e accidentale, che ha preso forma al Centro Teatro Ateneo di Roma dal 1980 al 1995. Quando ho cominciato ad occuparmene ero una giovane giornalista da poco laureata. Con un’euforia forse eccessiva, m’ero messa ad affrontare materiali d’ogni tipo: copioni originali, documentazioni video, dispense, libri, racconti dei protagonisti, articoli di giornali, producevano una accumulazione di saperi e pratiche teatrali che non ho saputo allora contenere (…). Negli anni la scrittura ha avuto qualche battuta d’arresto, producendo un’insoddisfazione e un senso di impotenza che toccava non solo me (…). A un certo punto ho preso coraggio e ho finito il libro. Nel frattempo, la meravigliosa isola che ha rappresentato il Teatro Ateneo (e il Centro Teatro Ateneo) negli anni d’oro che vanno dal 1980 al 1995 non è rimasta narrazione. Ed è stato proprio il sentimento del tempo, a partire da questo nostro tempo lacunoso, pulsante di desideri senza nome ma anche di vistose amnesie, che mi ha spinto a navigare contro la corrente, a trasformare quello che doveva essere un instant book in un documento cronachistico, un reportage a posteriori».
Un “reportage a posteriori” dove suonano ancora vivide e vere le parole che Eduardo riservò agli allievi ammessi alla sua scuola di drammaturgia (progetto avviato nell’aprile del 1981) e, qualche anno più tardi, quelle da lui dedicate alla traduzione de La Tempesta. Le parole altisonanti e battagliere di Carmelo Bene e Vittorio Gassman, litigiosi fino allo sfinimento. Quelle ieratiche e sublimi di Grotowski. Quelle pacatamente ancestrali di Brook. Quelle estreme, rischiose e metateatrali di Vasil’ev. Quelle carnali del Testori di Tiezzi/Lombardi. E potremmo continuare ancora. Non si può certamente, esaurire in poche impressioni l’estremo valore di questo poderoso volume che, allo scrupoloso lavoro di ricerca e di collazione documentaria (reso possibile anche dal tanto materiale video raccolto nel Centro Teatro Ateneo), aggiunge un afflato interpretativo del tutto personale. Le pagine scorrono una dopo l’altra, sostenute da una scrittura lirica, musicale, ariosa, mai ostica o tecnica o elitaria. Un abbraccio di emozioni grandi e – personalmente – anche di meravigliosi ricordi. E allora è proprio vero che un libro di teatro è davvero tale quando somiglia alla materia eterea e sfuggente che tratta. Quando diventa eredità per chi non c’era. Quando contribuisce a tramandare la memoria del Bello. Scrive, non a caso, Antonella Ottai nell’introduzione: «Nel Teatro Ateneo, nel corso della sua felice esistenza, la popolazione studentesca, uscita dalle scuole superiori, in epoca precedente alle comunità virtuali, ha potuto incontrare di presenza il senso più peculiare che un teatro assume nella città degli studi che lo ospita, ovvero la civiltà dell’assemblea e del pubblico dibattimento, il sapore della molteplicità e il gusto della differenza. Dopo tutti questi anni dalla chiusura del Teatro Ateneo, questo libro ci fa ripercorrere un passato importante e ci convince che la speranza di una sua ripresa non è un desiderio, ma un dovere».
L’isola che c’era: grandi maestri al Teatro Ateneo (1980-1995)
di Katia Ippaso
introduzione Antonella Ottai
foto di copertina Archivio Centro Teatro Ateneo.
Editoria & Spettacolo, Spoleto, 2019, pp.264, euro 18,00.