Quando Mario Martone entra nella sala del Teatro India, avvisa gli spettatori di una presenza insolita. In questi lunghi mesi di chiusura gli uccelli hanno costruito i loro nidi nel tetto del teatro. Sentiremo quindi i loro cinguettii e forse, se fortunati, anche uno scontro tra gabbiani e corvi. È vero, per tutto il tempo avvertiamo i loro richiami. Ma non disturbano affatto. Al contrario, rendono l’esperienza teatrale ancora più viva. Quel cinguettare si integra perfettamente con la drammaturgia, divenendo un tutt’uno con la scena. Si ha come l’impressione che a un certo punto quei tanti pigolii si trasformino nelle diverse voci interiori di Goliarda, persa nel tentativo di ascoltarle.
Il filo di mezzogiorno, secondo romanzo di quella che Goliarda Sapienza ha definito la sua «autobiografia delle contraddizioni», è il racconto degli anni di analisi e del rapporto con il suo terapeuta. La scrittrice viene ricoverata nel reparto psichiatrico del Policlinico di Roma, in seguito al suo primo tentativo di suicidio e viene sottoposta a diverse sedute di elettroshock. Saranno necessari gli sforzi del regista e allora suo compagno Citto Maselli a tirarla fuori da quelle mura. La fine di quell’esperienza segnerà però l’inizio di un’altra: l’incontro con Ignazio Majore, analista che la seguirà per tre anni, cercando di far riemergere i ricordi dalla sua memoria. Quest’ultimo è interpretato da Roberto De Francesco, che riesce magistralmente a restituire il distacco professionale a cui è tenuto l’analista e allo stesso tempo la difficoltà e l’imbarazzo nel non riuscire a preservare la distanza tra sé e la paziente.
L’adattamento di Ippolita di Majo del romanzo si accorda perfettamente con la regia di Martone, che torna ad occuparsi a teatro di scrittrici e lo fa con una cura e un’attenzione capaci di restituire memoria e vita a quelle voci femminili. È l’attrice Donatella Finocchiaro ad interpretare Goliarda con un’intensità che rende bene il movimento e l’oscillazione dei suoi continui sbalzi d’umore e delle contraddizioni interne che la abitano e la spingono ogni giorno a interrogarsi e tormentarsi su ciò che è stato.
«Io scrivevo!». È questa una delle battute che fa sobbalzare chi assiste a questo suo continuo ricordare. La sorpresa e la consolazione che prova nel ritrovare le sue poesie è il segno che, dopo numerosi sforzi, riesce a rintracciare il filo del suo passato, che riaffiora a mezzogiorno, l’ora in cui il terapeuta puntualmente arriva.
Chiunque abbia vissuto l’esperienza dell’analisi sa bene che per l’ora della terapia non vale la misura del tempo quantitativo. Al contrario si tratta di immergersi nella dimensione più profonda di quella che Bergson ha definito la durata, in cui non è possibile distinguere nessun istante dall’altro. Così come il tempo, anche lo spazio si trasforma. È la nostra percezione del mondo a cambiare. Una poltrona, se è quella su cui siede l’analista, non può essere più vista come un semplice elemento d’arredo. Diventerà improvvisamente altro. Nulla poi sarà più desiderabile del lettino, che forse in un altro luogo non avremmo neppure notato. L’analisi è uno sdoppiamento, un continuo proiettare parti di sé sull’analista. L’immagine del transfert è qui resa perfettamente attraverso l’allestimento scenico: due palchi separati, due stanze perfettamente identiche, speculari. Ogni tanto questi due spazi si uniscono, a volte si separano vertiginosamente. Vediamo la stanza andare avanti e indietro, ondeggiare, quasi a ricreare il movimento interno della coscienza. A volte la linea che unisce i due ambienti si rompe, come dopo una scossa di terremoto, per poi ricomporsi. È Goliarda stessa l’ambiente in cui è rappresentata: una donna spezzata, che cerca di ricostruirsi, raccogliendo frammenti di sé, proustianamente a metà tra il tempo perduto e il tempo da ritrovare.
Il filo di mezzogiorno
di Goliarda Sapienza
adattamento Ippolita di Majo
regia Mario Martone
con Donatella Finocchiaro, Roberto De Francesco.
Teatro India, Roma, dal 20 al 29 maggio 2021.