«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma la tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata sulle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta» (Walter Benjamin, Angelus Novus, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, Milano, 1962, p. 80.). L’aspetto meno scontato delle narrazioni sulla Storia ci arrivano probabilmente da esperienze artistiche apparentemente allocate in contenitori “altri”, rispetto all’accademia. Ne sono esempio certa letteratura che più e meglio dell’esegesi storica ha saputo raccontare il non raccontabile, oppure lavori scenici che attraverso la scomposizione della performance riescono a decriptare, toccare anche con crudezza manifesta, i temi che la Storia (per giunta contemporanea) ci propone.
È un cruccio costante per Arkadi Zaides, da tempo impegnato a osservare il nostro tempo stringente e più prossimo con articolazioni sceniche sempre a ridosso della propria biografia anche personale, quello di immettere in lavori in between tra partitura coreografica e sintesi “archeologica” di fatti realmente accaduti, un certo spessore da nocumentary, un apparente fraintendimento dove il “vero” emerge in tutta la sua brutalità. Originario della Bielorussia, Zaides formatosi originariamente al Suzanne Dellal Centre for Dance and Theatre di Tel Aviv ha danzato, tra gli altri, per Yasmeen Godder in uno degli spettacoli memorabili dei primi anni Duemila (Strawberry Cream and Gunpowder), e oggi è di stanza in Francia, ha una multiforme configurazione di artista internazionale che, come molti e molte della sua generazione, muove verso uno spazio della creazione tutto da riconfigurare, “abusando” della tradizione, anzi spesso rivoltandone il senso con strumenti affini seppure in quell’alveo (della tradizione) lo scavo nel linguaggio e nel corpo lo porti in un altrove fatto di recuperi di una Storia recente. Il debutto lo scorso 21 novembre allo Spazio Rossellini di Roma dello spettacolo The Cloud in seno al progetto Orbita Corpi in Ascolto di Orbita | Spellbound ne ha confermato lo spessore, un lavoro che per accumulo di materiali percettivi e costellazioni narrative mostra ricerca e sguardo politico affilati, amplificato in una polisemia di resoconti visivi inattesi e dove linguaggio e corpo si prestano al recupero di una memoria volumetrica.
Già in una sua precedente opera Zaides aveva “ricomposto” una mappa virtuale, quella della grande tomba degli insepolti, lo Sheol dei nostri tempi, dando voce e corpo in Necropolis alle innumerevoli morti del Mediterraneo e delle terre di confine ad esso legate. E se in Necropolis l’archivio di memorie assolveva a una scarnificazione oggettuale nell’impossibilità di ritrovarsi, di identificarsi, di testimoniare il “sacrificio” esposto, qui, in questo nuovo processo di sedimentazione qual è The Cloud, il personale e il pubblico si aggrovigliano, si assommano, uno elude l’altro come documenti nella reciproca connessione per approdare a una narrazione multi strato, sgravandosi di informazioni e di immagini che dialogano col corpo, prima parlante, lasciato alla parola piana, refrattaria di enfasi o partecipazioni emotive, successivamente operante come un doppio, un disegno dis-armonico, quasi antifrastico dell’impalcatura visiva che incornicia lo spettacolo e che sembra condurci in uno spazio essenziale della propria memoria. È, di fatto questa la seconda parte, la spinta verso un dialogo tra gesto e corpus tecnologico, una dimensione ulteriore grazie all’ausilio dell’intelligenza artificiale, che nello spettacolo opera componendo paesaggi atrofizzati o cartoline o video del passato che mettono di nuovo, che mettono ancora una volta in circolo pezzi di vita da un archivio del dolore.
Zaides è seduto al centro dello spazio scenico che ha su due lati due grandi schermi che riportano pedissequamente tutte le sue parole pronunciate in inglese (e noi guidati da un programma di sala con la traduzione); ci ricordano due memoriali, sacralità del testo quasi una incisione d’arte che ri-semantizza opere problematiche in quello scorrere del testo come in un monitor da PC. Ci accoglie, rivela che questo lavoro è un processo durato otto anni nell’intenzione di seguire una nuvola radioattiva ma svela al contempo la relazione tra questa e la nuvola dell’IA, il cloud appunto, strumento di riconversione e tessitura tra documenti scelti, parole dette e immagini di repertorio che collidono o riconvertono le materie in nuove figurazioni e nessi, nuovi legami impensati. Una architettura alla maniera dell’atlante dei legami di Aby Warburg, che già alla fine degli anni Venti aveva ipotizzato congiunture e sintesi di mondi, esperienze, immaginari e culture alle quali rimandare di continuo da un punto dato, in una tensione di estreme connessioni di senso e combinazioni possibili (ricordate il film A Beatiful Mind?), per certi versi una sorta di semiotica del rimosso nella riemersione della memoria. Ricorda molto il Bilderatlas Mnemosyne (Atlante della memoria) di Warburg The Cloud di Zaides, ma in questa contemporaneità, oggi, i materiali si trasformano in diretta, seguendo la biografia detta dal protagonista, le sue riflessioni sulla tecnologia israeliana, il viaggio in Bielorussia con la madre, la catastrofe (senza fondo) di Chernobyl, i giorni di scuola a Gomel e le parole della giornalista Svetlana Alexievich, l’acquisto su eBay di una tuta come quelle dei liquidatori, persone addette all’evacuazione e decontaminazione delle zone problematiche dopo l’esplosione, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: fotografie, spezzoni filmici, scomposizioni, monconi di palazzi e terre arse e sventrate, ricordi in soggettiva che ritraggono anche un momento storico indelebile e il recupero di Walter Benjamin e la raffigurazione del suo Angelo quale “conduttore” in questa bufera della Storia, come un Virgilio morale, tiene assieme (quanto, d’altronde, nella storia dello stesso Benjamin) abiura dell’umanità e afflato poetico.
L’intelligenza artificiale crea, dunque, collegamenti resi a vista sugli schermi e noi possiamo rintracciare in diretta i segni e rimandi che la tecnologia mette a disposizione, siano essi delle foto di classe dove si sfigurano pian piano, quasi in un dissolversi di pellicola al fuoco, i volti dei bambini e delle bambine in posa scolastica (in quella lotta del corpo infranto alla Francis Bacon) dove è sottolineato il ritratto del regista-coreografo, dove la natura è una costellazioni di pericoli, dove non c’è compassione ma soltanto riproposizione di ciò ch’è stato ed è. Iper-coreografia, come viene indicato questo lavoro di Zaides, è il termine che più tiene assieme i diversi piani di un “esperimento” straordinario; iper in quanto sovraffollamento di intuizioni e riflessi di visionarie attitudini del corpo scenico svelando, anche nel caso di Arkadi Zaides, quanto il concetto di coreografia sia plurale, collettivo, e scantona dal canone. Cambia la scena, esce Zaides mentre un altro performer fa il suo ingresso e inizia, anche lui indossando una tuta con tanto di maschere antigas, un dialogo dolente con le immagini, un attraversamento posturale, accenni di movimento cadenzati dai gesti in video. Una partitura inabissante che si amplifica esponenzialmente nel gesto riflesso. Spettacolo assoluto, grandioso.
The Cloud
coreografia e regia Arkadi Zaides
drammaturgia Igor Dobricic
sviluppo IA e suono Axel Chemla-Romeu-Santos
direttore della fotografia Artur Castro Freire
con Axel Chemla-Romeu-Santos, Misha Demoustier/Roger Sala Reyner, Arkadi Zaides
luci Jan Mergaert
direzione tecnica Etienne Exbrayat
produzione Simge Gücük / Institut des Croisements
distribuzione internazionale Something Great
ricerca iniziale condotta nell’ambito di Sound ImageCulture (SIC) con il sostegno della Federazione Vallonia-Bruxelles e VAF – Vlaams Audiovisueel Fund
coproduzione Montpellier Danse (FR), Charleroi Danse (BE), Maison de la Danse (FR), Mousonturm (DE), CAMPO (BE) Residency support PACT Zollverein (DE), Orbita | Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza (IT), Dialoghi / Villa Manin, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli-Venezia Giulia (IT)
ricerca iniziale condotta nell’ambito di Sound Image Culture (SIC) supportato da Wallonia-Brussels Federation and VAF – Vlaams Audiovisueel Fund
con il supporto del Ministero della Cultura Francese / Direction générale de la création artistiqu;, Trust for Mutual Understanding (TMU) New York; Citttà di Ghent, Flemish Authorities e Belgian Federal Government’s Tax Shelter measure through Flanders Tax Shelter (BE), un programma di residenza parte di A.R.T. research program at La Comédie de Valence, CDN (FR).
Progetto Orbita Corpi in Ascolto, Spazio Rossellini, Roma, 21 novembre 2024.