“Hit man- Killer per caso”: il brivido del doppio e la ricerca dell’identità perduta di Monia Manzo

Foto di Getty Images/Netflix/Ringer illustration

L’ultimo film di Richard Linklater ora al cinema e presentato alla Biennale Cinema 2023, Fuori Concorso, non è solo una commedia d’azione, ma una vera e propria speculazione filosofica sulla finzione all’interno della finzione con uno script, che nelle mani di un regista medio avrebbe fatto assumere al film le sembianze di un lavoro debole e poco significativo, invece, stiamo parlando di uno dei più capaci professionisti degli ultimi anni.
Colpisce il plot della commedia che si ispira liberamente a un lungo articolo di cronaca nera di Skip Hollandsworth in cui vengono narrate le vicende di Gary Johnson, un killer fake che – su commissione del Dipartimento della polizia di New Orleans – viene usato come esca per incastrare i mandanti degli omicidi. Tutto avviene sempre in ristoranti economici mentre i poliziotti aspettano all’esterno per arrestare i colpevoli colti in flagrante.
L’elemento che colpisce di più di questo lavoro di Linklater è la centralità dell’attore e la possibilità di rendere speciale una storia non complicata attraverso la regia e le caratterizzazioni dei personaggi: Glen Powell, ad esempio, che è anche cosceneggiatore, riesce perfettamente nel suo ruolo dando vita a un racconto molto fluido e divertente.
Nella storia, il personaggio da lui interpretato, Gary, conduce una doppia esistenza: è all’apparenza un professore di filosofia dai modi cortesi anche se fuori dal campus Gary/Ron è un freddo e cinico figuro che attira i criminali per incastrarli.
Il meccanismo si inceppa quando Gary conosce Madison (Adria Arjona), una giovane donna che vuole liberarsi del marito, e i due finiscono per entrare in una reale intimità. Gary abbandona il personaggio, ma a tratti. Mantiene con testardaggine l’identità di Ron, affascinato dall’idea forse di essere sexy e deciso; inoltre capisce che alla donna piace il tenebroso criminale.
Non è un caso che ami chiedere: «E se il tuo sé fosse un costrutto?» agli studenti durante le sue lezioni di filosofia: è qualcosa che costruiamo e adattiamo a seconda di dove siamo e con chi siamo. Quindi per il professore ogni interazione presuppone una performance e anche in ambito accademico ritroviamo la simulazione o forse la dissimulazione.
Gary e Ron si esibiscono e si esibisce anche Madison mentre si presenta per richiedere un assassinio su commissione…
La donna da semplice cliente si trasforma in affetto, intessendo con lui una relazione tanto da spingere Gary al depistaggio delle prove a carico suo.
La storia tra i due diventa una sorta di sotterfugio continuo e quotidiano in cui l’identità rischia di essere sommersa dalle menzogne che, inanellate una sull’altra, sommergono Gary/Ron.
La maschera non è più tale, ma si sostituisce alla prima e originaria persona/identità, il super-io non si distingue più dall’io e quale migliore sistema per rappresentare un fenomeno che una recitazione dove emergono tratti che potremmo definire pirandelliani?
In questa storia dalle tinte american spy non possiamo non individuare un forte elemento grottesco nostrano, che non a caso va a completare un quadro filmico che potremmo definire metacinematografico.
Linklater ci regala un film atipico e geniale dal ritmo improvvisato come in una partitura musicale contemporanea, in cui l’andamento della storia non è altro che un’evocazione della assoluta mancanza di realismo riguardo al concetto di omicidio e di sicario.
Tutti possono essere colpevoli, nessuno escluso in una società che produce assassini per gioco o forse per esigenze sceniche.