I misfatti dei padri condannano i figli: “La ferocia” torna al REF di Laura Novelli

Foto di Cosimo Trimboli

Trasporre un romanzo in drammaturgia è sicuramente una delle operazioni più complicate da fare a teatro. D’altra parte, però, il dialogo tra letteratura (con la fissità della sua parola scritta) e scena (con la fluidità della sua parola detta) rappresenta un nodo particolarmente affascinante e complesso della riflessione critica in entrambi gli ambiti di studio – sempre interessanti, a tal riguardo, i saggi Teatro e romanzo di Cesare Segre (Einaudi, 1984) e La drammaturgia del ‘900 tra romanzo e montaggio di Claudio Longhi (Pacini Editore, 1999) – nonché una pratica scenica molto amata da alcune compagnie e registi italiani contemporanei. Memorabili restano, solo per fare qualche esempio, gli straordinari allestimenti “letterari” di Luca Ronconi quali, tra gli altri, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, I fratelli Karamazov, Lolita, così come, più di recente, le superbe regie che Antonio Latella ha messo a segno in Francamente me ne infischio (da Via col Vento di Margaret Mitchell) o La valle dell’Eden.
E proprio con Latella lavora proficuamente da tempo Linda Dalisi, dramaturg tra le più sensibili, intelligenti e prolifiche del nostro panorama teatrale. A lei la compagnia pugliese VicoQuartoMazzini, fondata e diretta da Michele Altamura e Gabriele Paolocà (https://www.vqmteatro.com/), ha affidato il non facile compito di adattare il bestseller La ferocia, del conterraneo Nicola Lagioia, a tappeto drammaturgico dell’omonimo spettacolo che, con regia degli stessi Altamura e Paolocà, da circa un anno gira la nostra Penisola riscuotendo notevoli consensi e che, dopo il debutto a Romaeuropa 2023, la medesima rassegna ha riproposto nel cartellone 2024 con quattro repliche all’Argentina.

Foto di Francesco Capitani

Come è noto, il romanzo di Lagioia, edito da Einaudi e vincitore nel 2015 del Premio Strega e del Premio Mondello, disegna uno spaccato drammatico del nostro Meridione attraverso la parabola umana, economica e politico-sociale di una famiglia di imprenditori invischiata fino al collo in un giro di tangenti, corruzione, speculazione edilizia e malaffare su cui ha costruito la sua fortuna. A capo di questo coacervo di relazioni malate c’è Vittorio Salvemini, un palazzinaro corrotto e privo di qualsiasi imperativo morale la cui infausta condotta è paragonabile ad un fiume in piena che trascina via con sé ogni minimo barlume di serenità, luce, amore. Sorretto da una prosa molto densa, alta e raffinata, il racconto di Lagioia viaggia su traiettorie simboliche e paradigmatiche; mescola denuncia sociale, ricostruzione storica, indagine poliziesca e analisi psicologica, alternando molto spesso piani spazio-temporali diversi e arricchendo altrettanto spesso la narrazione con rimandi scientifici all’etologia, al regno animale, a quella lotta per la sopravvivenza che in natura contrappone giocoforza predatori e vittime, prevaricatori e soccombenti.
Elemento questo che rimane molto vivo anche nella partitura drammaturgica e nell’impianto registico-scenografico del lavoro. Chiusi in una moderna villetta stile californiano dotata di ampia vetrata (firma la scenografia Daniele Spanò), il pater familias (Leonardo Capuano), la moglie Annamaria (Francesca Mazza), il figlio medico (lo stesso Altamura) e il genero (Andrea Volpetti) sembrano proprio degli animali da esperimento che si muovono nello spazio angusto di una teca trasparente. Ciò che li aspetta è una lotta al massacro. Un annegamento. Una rovinosa caduta, preannunciata dalla cupa penombra in cui si aprono i fatti e da un’infausta notizia che costituisce il ganglio centrale della trama. La tragica morte di Clara, figlia maggiore della coppia, è infatti l’evento intorno al quale si delineano i campi di forza nei rapporti familiari – e tra questi e la società – e grazie al quale emergerà, a poco a poco, il marciume sotteso agli interessi economici di Vittorio.

Foto di Francesco Capitani

Mentre però, nel romanzo, Clara esiste anche come personaggio in vita, nell’adattamento della Dalisi ella è data già per morta. Questa sfasatura del plot ha un significato enorme teatralmente parlando, perché rende l’assenza stessa materia spettacolare e costringe tutte le altre figure a fare i conti con lei, un po’ come succede nello splendido Natura morta in un fosso di Fausto Paravidino. In definitiva, la bellissima Clara, giovane donna emotivamente instabile e ripetutamente fedifraga proprio per compiacere gli affari del padre, è la vera vittima, il vero agnello sacrificale di questa orribile storia. Di questa orribile “ferocia”.
Sarà poi il ritorno all’ovile del fratellastro Michele (Paolocà), nato da un rapporto extraconiugale di Vittorio e allontanatosi dalla famiglia tempo addietro, a “vendicare” lo scempio di tale misfatto. La denuncia finale attraverso cui egli, guerreggiando contro l’abusivismo edilizio e lo scempio ambientale commessi dal padre a Porto Allegro, cercherà di riscattare la morte di Clara (un probabile omicidio fatto passare per suicidio) condensa in sé tutti i diversi piani tematici della vicenda e li fa risuonare di echi importanti. Da un lato, l’esplosione del nucleo familiare, legato com’è alla stortura innaturale di un genitore carnefice della propria prole, rimanda senza dubbio al mito degli Atridi e al celebre film Festen di Thomas Vinterberg (1998); dall’altro, il sostrato sociale e politico della vicenda non può non far pensare a Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963), a proposito del quale il regista stesso ebbe a dichiarare: «L’aspetto negativo della speculazione immobiliare non consiste soltanto nella distruzione della città e nell’aspetto caotico che essa assume, ma anche nella distruzione di una cultura a vantaggio di un’altra in cui l’uomo non trova più posto».

Foto di Francesco Capitani

Lo spettacolo, calato nel disegno luci di Giulia Pastore e nel paesaggio musicale di Pino Basile, soffre a nostro parere di un’eccessiva lentezza del ritmo generale e di alcuni passaggi troppo didascalici. La regia conferisce, infatti, alla materia drammaturgica un andamento ripetitivo, compassato, che non giova all’insieme. Ciò, malgrado la bravura degli interpreti: andatura claudicante, voce roca, una visibile curvatura della schiena in avanti, Capuano regala al suo personaggio una fisionomia ctonia, animalesca (per tornare a quanto si diceva sopra), che sposa in pieno la spregevolezza del personaggio e alla quale fa da contrappunto la rabbiosa compiacenza della Mazza, molto intensa nel monologo in cui si racconta con spudorata audacia. Ottime anche le prove attoriali dei due registi così come quella di Gaetano Colella, nel ruolo del giornalista che, dislocato in uno studio radiofonico posto lateralmente, funge da voce narrante e occhio esterno alla feroce vicenda.

La ferocia

dal romanzo di Nicola Lagioia
ideazione VicoQuartoMazzini
regia Michele Altamura, Gabriele Paolocà
adattamento Linda Dalisi
con Michele Altamura, Leonardo Capuano, Enrico Casale, Gaetano Colella, Francesca Mazza, Marco Morellini, Gabriele Paolocà, Andrea Volpetti
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
musiche e sound designer Pino Basile
costumi Lilian Indraccolo
produzione Scarti – Centro di Produzione teatrale d’Innovazione, Elsinor,
LAC Lugano Arte e Cultura, Romaeuropa Festival, Teatri di Bari, Teatro Nazionale.

Romaeuropa Festival, Teatro Argentina, Roma, 1-4 ottobre 2024.
Nuovamente in tournée da febbraio 2025.