In occasione della decima edizione di Sentieri, conclusasi il 25 giugno scorso, abbiamo incontrato Serena Gatti e Raffaele Natale di Azul per farci raccontare le linee estetiche e poetiche del loro progetto: come nascono le loro “creazioni”, quale il rapporto intessuto con luoghi “altri”, che tipo di relazioni vengono intrecciate tra spettatori, spazio, performer e quali le modalità di una ricerca costante tesa a coniugare paesaggi, suoni, memorie? Dal dialogo, emerge un processo artistico complesso che ha alla sua base due capisaldi: l’integrazione tra arte e territorio, ma soprattutto la volontà dei due artisti e di quanti collaborano con loro di evocare negli spettatori visioni, partecipazione e anche un modo differente di stare al Mondo.
Come nasce il progetto Sentieri?
Serena Gatti: Mi meraviglio della ricchezza che abbiamo e che dimentichiamo o trascuriamo. Questa meraviglia è stata il seme che ha generato Sentieri. C’è poi una meraviglia in potenza, che si avvera non appena si inizia a lavorare nel sito, un dono costante di sorpresa da parte dello spazio, qualcosa che induce a risvegliarsi continuamente, le forze della natura diventano vere e proprie collaboratrici, demiurghe dell’operazione. La meraviglia sta anche nella percezione “simbolica” dei luoghi. Un luogo abbandonato può provocare un agguato alla realtà ordinaria, perché c’è un abisso rispetto a come lo si immaginava o ricordava o perché le sue funzioni spaziali sono invertite. Col tempo la meraviglia non cessa, ma si approfondisce. Mi interessa avverare un ribaltamento dei ruoli, sottrarci come artisti e pórci in ascolto, imparare la creazione da chi – come la natura – la pratica da millenni. Qui non è la tecnica, la macchineria del teatro a creare meraviglia, ma il dispositivo drammaturgico, visivo e sonoro insito nello spazio.
Tre dimensioni sono essenziali in Sentieri, tutte e tre a rischio di abbandono: l’arte dal vivo, gli spazi, il camminare. C’è una quarta dimensione, anche questa annoverata nel dizionario delle cose in estinzione: l’incontro. Queste quattro dimensioni, tutte a rischio di marginalità, sono i nostri strumenti di lavoro. Abitiamo in un paese ricco di patrimoni naturali, architettonici, archeologici, monumentali, paesaggistici, di cui sembriamo dimenticarci, o non accorgerci, o che forse diamo per scontati. Veri e propri patrimoni di bellezza trascurata. Qui sta l’urgenza di Sentieri, il movente originario. È necessario uscire fuori da questo distratto osservare, per abitare le visioni non c’è un solo luogo deputato. Camminare porta ad incontrare i luoghi con attenzione, fa intravedere ciò che abbiamo perduto, ciò che possiamo salvare, svela le potenzialità. Con un cambio di luce, con un passo compiuto un poco più in là del selciato, si vede un’altra sfumatura, un lato che non conoscevamo o che non siamo più capaci di riconoscere. Luoghi che sembrano ormai desueti si scoprono carichi, ci ricordano luci e ombre della nostra avventura, sono capaci di parlarci nell’intimo, come un familiare, un compagno, un amico. Così affiora la necessità di tornare a un confronto vivo con sé stessi, con gli altri, con lo spazio. Attraverso il camminare ci si riappropria della nostra prima casa, il corpo, che è anche la prima geografia del rimosso, del dimenticato.
Sentieri è un progetto di arte perfomativa che crea un’opera originale ed unica in luoghi abbandonati, chiusi e dimenticati. Lo spazio, oltre a essere il set nel quale si svolge la performance, è anche la musa che ispira il processo artistico ed è il protagonista dell’opera. La creazione nasce ogni volta nuova grazie a un intenso lavoro in situ. C’è una simbiosi tra opera e spazio che non può e non vuole essere riadattata altrove, non è esportabile, non è un format. Il progetto mira a valorizzare l’identità del luogo, il patrimonio che lì e solo lì può esserci, in controtendenza con una diffusa omologazione degli spazi. La performance è itinerante, non prevede un palco o una prossemica frontale. Il numero di spettatori è limitato per consentire un’esperienza immersiva, varia a seconda dello spazio ma non supera le quaranta persone anche in spazi molto grandi. Gli spettatori sono accolti da una guida che li invita a seguirla, a stare in silenzio, a non fare foto e a procedere insieme con un ritmo comune. La durata è di circa un’ora, si fanno fino a quattro repliche al giorno per consentire a più persone di partecipare. Il linguaggio è multidisciplinare. Tra i partecipanti ci sono persone che abitano nel territorio e altre che vengono da fuori, è un gruppo misto di professionisti e non professionisti. Il numero dei performer varia a seconda di diverse contingenze, in genere è tra dieci e quindici. Il progetto si articola in una fase indoor attraverso seminari intensivi che indagano alcune costanti dell’arte performativa e una fase outdoor volta a scegliere lo spazio, fare i sopralluoghi, e poi iniziare il processo di creazione dell’opera in situ e quindi il debutto e le repliche.
Sentieri è un progetto indipendente, ideato da me e codiretto con Raffaele Natale che cura con me la regia e in particolare la composizione e la drammaturgia musicale. Dal 2012 Sentieri ha avuto dieci edizioni. Alcune sono state ospitate da festival italiani e internazionali, la maggior parte sono state fatte in luoghi diversi della provincia di Pisa.
Quali sono state le principali novità dell’edizione di quest’anno?
S.G.: Come sempre in teatro, ma in particolare in Sentieri il pubblico ha un ruolo fondamentale perché, al pari dei performer, attraversa camminando il vasto spazio della scena. Inoltre, è l’incedere del pubblico come un corpo unico – nel corpo più esteso del paesaggio – a mettere in moto l’azione e dare il ritmo alla dinamica delle azioni. È la metrica del camminare del pubblico la misura di sviluppo delle azioni. Il sentiero, ovvero il percorso da dove si sceglie di passare, è la prima cosa che definiamo nel processo di creazione, in quanto rappresenta anche lo scheletro drammaturgico dell’opera e la traccia da dove si disegnano le diverse prospettive, le prossemiche, le dinamiche.
Da sempre ho immaginato i passi del pubblico sul sentiero, le soste, il suo disporsi, curvare e avanzare come una traccia di movimento che si intreccia con le altre tracce della creazione. Quest’anno ho chiesto al pubblico maggiore consapevolezza di questo aspetto, rendendolo più partecipe nel discorso introduttivo della qualità della sua presenza. Camminare insieme in silenzio, come uno stormo, è un elemento essenziale di Sentieri e farlo in ascolto è fondamentale non solo per la riuscita dell’opera ma per il senso dell’operazione. Lo spettatore qui non è chi guarda e chi si aspetta qualcosa ma è parte integrante dell’opera. La consapevolezza della sua presenza è attiva nel camminare, nel sentire, nel poter muovere lo sguardo, attiva nel sentirsi parte di un gruppo che a sua volta è parte di qualcosa di più grande: l’opera, la relazione, la natura intorno. Questa consapevolezza porta al compiersi di un rito laico, all’emergere di una comunità provvisoria, di un momento di solitudine condivisa, di una comune immersione nell’opera.
Un’altra novità riguarda lo svelamento del performer. Nelle recenti edizioni il perfomer è sempre stato qualcosa di inafferrabile, era evitata la visione del volto in vari modi, con l’uso di maschere, o svelando il corpo solo per frammenti, o nella distanza o nell’inafferrabilità. Si celava l’identità dell’essere umano per creare una fusione estrema tra uomo e natura. In Sentieri #10 questo segno è stato a tratti sovvertito da una diversa interazione con il pubblico. L’indagine di quest’anno è stata affondare nella questione della presenza del pubblico. La performance prevedeva un graduale avvicinamento e svelamento dei performer al pubblico, fino al punto di abbattere il limite tra i due: da una scena di fusione totale nella natura i performer si svelano, si lasciano guardare, si avvicinano al pubblico e arrivano a un contatto con esso. Poi il diaframma ritorna. Non era mai accaduto prima in Sentieri. La riflessione su questo “limen” nella creazione Site-specific è interessante, siamo tutti sotto uno stesso cielo: il vero protagonista è lo spazio, performer e spettatori sono, con ruoli diversi, compagni di azione e testimoni dello spazio.
Un’altra novità ancora di questa edizione è stato il lavoro in parte in un luogo indoor, la Ex Villa Presidenziale del Gombo nella Tenuta di San Rossore. Il percorso, partendo da un bosco, arrivava ad attraversare gli interni della Villa, per poi fuoriuscire e continuare outdoor, oltre il giardino della Villa, oltre il cancello, verso un sentiero sempre più selvaggio che poi mutava in dune, per arrivare al mare. Tutta quest’area è protetta e inaccessibile al pubblico. In genere avevamo solo sfiorato i luoghi indoor, quest’anno invece abbiamo dedicato attenzione a questo “dentro” non solo scegliendo di entrare nella Villa ma creando un percorso “a stanze”, di natura per lo più istallativa, lavorando con fonti luminose a basso costo energetico e altri elementi “spontanei” come il vento, le tende, le enormi vetrate, le finestre, i corridoi, le porte, gli affacci, i terrazzi e il mobilio che è rimasto. Da un punto di vista drammaturgico questo “dentro” era essenziale in quanto il sentiero si sviluppava verso una progressiva apertura, oltre il cancello, oltre la natura regolata, oltre la vegetazione, fino al mare come luogo di apertura estrema. Una progressiva “spoliazione” del sé chiuso, abitudinario e ritirato verso uno spazio sempre più ampio e meno codificato. Da una staticità data dal corpo dei performer e dalla natura architettonica della Villa si passava a una dinamicità data dal movimento dei performer (in cammino verso un “a venire” sulla spiaggia) e dal movimento dello spazio intorno: il vento, le fronde, le nuvole, gli uccelli, le onde.
Questo doppio polo “dentro-fuori” ha destato un lavoro interessante sulla percezione. È stata un’esperienza come sempre multisensoriale, ma questa volta all’interno la luce era naturale e in parte artificiale, in parte un connubio tra le due. E così il disegno sonoro composto per la Villa cambiava non appena si fuoriusciva e ci si esponeva all’altro disegno del paesaggio sonoro tutto intorno che con questo si fondeva. In un gioco di ribaltamento, affiorava più avanti la musica dal vivo, composta e interpretata da Raffaele Natale, ma ora senza protezione alcuna dello spazio interno, anzi esposta al bosco e alla voce del mare che già si faceva avvertire. Dentro la Villa è stato creato un percorso olfattivo, con degli aromatizzatori. L’olfatto, già stimolato, trovava poi nel sentiero i forti profumi spontanei del timo, del mirto, dell’elicriso, del mare. E se passando nella Villa la sensazione poteva essere come su uno scavo archeologico, quando affiora la vita passata che si sbriciola appena la tocchi, sul sentiero avviene invece il tocco reale, presente e fisico tra performer e spettatore.
La cosa singolare della Villa è che un luogo chiuso al pubblico, tuttavia riqualificato – è stata da poco ristrutturata – ma è in realtà al momento è poco frequentata, quasi abbandonata. Forse è la prima volta che ci troviamo in una specifica così modulata del “dimenticato”.
Che cosa vuol dire “abitare” «luoghi abbandonati, chiusi o dimenticati?» E come può farlo il teatro oggi nel cui ambito stanno aumentando ormai da anni le esperienze e gli interventi Site-specific?
S.G: L’operazione di Sentieri ha a che fare con la lentezza e con l’idea di non possesso dello spazio. Abitare è relazionarsi a uno spazio che non è proprio, si traduce in un entrare in punta di piedi e in un conviverci, andarlo a trovare, conoscerlo, fargli compagnia, come si può abitare un’amicizia, una relazione.
Un abitare, inoltre, che non ha a che fare con il conservare o il ricostruire. Da parte nostra c’è il recupero immateriale e immaginifico dello spazio, non il recupero strutturale. C’è l’abitare lo spazio per come è, senza intervenire: la nostra azione prevede di cambiare non lo spazio ma la postura dell’osservazione. Partiamo dall’ascolto, dalla presenza, dalla cura, dallo stesso inesauribile “limite” del corpo che riguarda sia performer che pubblico. Abitare per trovare un momento di tregua, di vicinanza con il naturale, l’ineffabile, per recuperare uno sguardo infante, uno sguardo che ancora non trova le parole, che sta nella meraviglia. Insieme al luogo c’è anche un tipo di sguardo da abitare e ancora prima da investigare.
Per il performer abitare vuol dire porsi in una condizione di svantaggio, lo spazio che si va ad abitare sovrasta, annienta, ridimensiona. È un rapporto diverso rispetto alla logica che vuole sfruttare gli spazi e dalla logica rappresentativa che usa gli spazi come “fondale” o che esibisce l’azione dell’uomo sulla natura (un giardino ben curato per esempio) o espone le rarità naturali allestite per l’occasione.
L’abitare è parte integrante del processo e determina la creazione. Nel caso di Sentieri non c’è un previo lavoro in sala o un copione o una traccia di riferimento che mette al sicuro, al riparo dall’incertezza e dalla sorpresa che naturalmente si generano a contatto con un luogo sconosciuto e con un altro sé che si scopre abitando un luogo sconosciuto. La scrittura avviene tutta a partire dal processo che si sviluppa nell’abitare il luogo. Nell’abitare i performer dovranno fare i conti con l’immensità che li sovrasta e con i minuscoli eclatanti avvenimenti che si rivelano alle percezioni non appena l’abitare e l’essere si raffinano. Tutto nasce in funzione dello spazio.
L’abitare investe il processo che porta alla composizione dell’opera ma continua anche durante la performance: camminare con uno sconosciuto incontrato per caso, stare insieme in silenzio con lo stesso andamento e con la stessa postura crea un altro modo di abitare gli spazi. E ancora prima dell’aspetto legato al gruppo, il camminare è esso stesso un modo di abitare, graduale, che focalizza e amplia le percezioni, che avviene nella lentezza, senza altri mezzi se non il proprio corpo – che per l’occasione torna a essere abitato o quantomeno a essere messo in movimento.
Spazio, tempo e interazione. Paesaggi del corpo e paesaggi della mente. Luoghi, attori e spettatori. Quali le visioni, le linee poetiche ed estetiche di Sentieri?
Raffaele Natale: Un paesaggio ha di per sé ha una scrittura interna, un sentiero ha un ritmo, un andamento interno, un carattere musicale. “Drammaturgia Onirica del Paesaggio” è la definizione che diamo a questa ricerca, la scrittura di sogno che il paesaggio ha in sé. Azul si inserisce nella fessura tra questi due mondi, quello ordinario e quello straordinario. Avviene un momento nel quale l’ordinario cade e si palesano mille eventi straordinari, mille cose date per scontato appaiono nella loro straordinarietà. In quel momento preciso gli accadimenti (il vento, i daini, un raggio) proiettano l’osservatore in uno stato onirico e questa imprevedibilità accende una tensione emotiva, aumentata dalla tensione performativa, che ha come presupposto di base l’agguato.
Sentieri è un’esperienza multisensoriale che ha come principio l’arte dell’agguato. L’agguato è un’arte – in verità potremmo definire tutta l’arte “arte dell’agguato” – ovvero il tentativo di creare uno spostamento percettivo del performer. Si tratta di porsi in un’altra condizione percettiva: l’agguato serve a modificare il punto di vista di chi guarda, ascolta o tocca. Proiettare un suono in lontananza è di per sé un agguato, costringerà a osservare là dove magari non si sarebbe osservato, a creare la condizione perché ci sia un’interruzione della percezione ordinaria. L’azione del performer nello spazio è come un pretesto, per affinare l’esperienza. Eseguiamo un pezzo di musica dal vivo, per esempio, non solo perché è bello in sé ma perché vale come pretesto per sentire di più: sentire l’evento musicale fuso con gli altri suoni intorno. Se questa risonanza può sembrare data dal caso è in verità data da uno studio paziente e lungo del luogo, dall’averlo appunto abitato. Ecco l’impossibilita di generare un format.
La nostra percezione si basa su un effetto di risonanza con il paesaggio, che è vivo e in movimento. Quello che è apparentemente fermo, fermo non lo è, un paesaggio oscilla, creando “atmosfere” diverse. Quando le oscillazioni tra osservatore e paesaggio sono comuni si crea una risonanza. Maggiore è il rapporto di risonanza, maggiore è l’attenzione con cui viene percepito. Forse per questo succede che i volti del pubblico alla fine del sentiero sono mutati. L’entrare in risonanza (o dissonanza) è la prima azione a cui il performer è chiamato durante il processo, è questo che consente all’abitare una condizione più profonda e un’indole conoscitiva, di scoperta che non si spenge.
L’azione del camminare e l’entrare in risonanza servono a preparare lo spettatore all’esperienza, a indurre quello stato per cui anche un evento minimo diventa immaginifico. L’intento è entrare in un altro flusso dove la nostra composizione si fonde con lo spazio, col suo essere vitale. Ogni replica diventa unica e irripetibile: lo spazio e il momento presente sono unici e irripetibili. Si è proiettati in un altrove sempre cangiante, ogni sentiero esprime la propria biodiversità e in ogni istante muta, per un cambio di luce, un suono, il cadere di un ramo, il passaggio di una volpe. Così come lo spazio, anche il nostro camminare resta vivo e vivo strumento di conoscenza di ciò che ci sta intorno. È questa ravvivata attenzione che ci pone in risonanza con noi, con l’altro, con lo spazio e con la creazione.
Lavorare in simbiosi con il paesaggio apre la questione della prospettiva. La fase di creazione e quella di composizione non possono prescindere a loro volta dalla prospettiva: da dove scelgo di guardare le cose, quando farle emergere, come farle emergere, cosa inquadrare. Sentieri “guarda ciò che resta in disparte appena fuori dall’inquadrature più bella”. La prospettiva incide sulla regia: come e quando variare le prospettive è un atto essenziale della composizione. Il paesaggio offre prospettive diverse da dove guardare un punto. C’è una prospettiva legata al tempo (la performance vista con la luce delle ore 15 è diversa dalla luce delle ore 18), legata all’atmosfera (vista con il cielo annuvolato è diversa che non vista con il sole a picco) legata alla presenza di altre specie viventi (il passaggio di un daino o di un aereo), legata al panorama sonoro (un coro di rane o un fruscio tra i cespugli). In questo gioco di prospettive si intessono le prospettive dei diversi partecipanti.
Il tema della prospettiva è essenziale in Sentieri: come guardare le cose, rinnovare lo sguardo, la sorpresa, la meraviglia, come uscire da un’attitudine giudicante, da un’abitudine di pensiero e lasciarsi scoprire altro. A partire dalla prospettiva l’intento è lavorare sulla nostra percezione con la possibilità di modificarla, sgranarla e allenarsi a guardare il mondo non solo dalla nostra prospettiva ma da quella degli animali, dei vegetali, dei minerali. L’urgenza è aprire gli occhi, cogliere aspetti che prima non concepivamo e che possono portare a un cambio di azione, di rotta.
La prospettiva incide anche nel ribaltamento dei ruoli. In Sentieri l’attore fa un passo indietro, è a servizio del paesaggio e non viceversa. L’uomo diventa albero e l’albero diventa principe. Non è l’artista che impone un’impronta all’ambiente ma al contrario c’è un approccio maieutico, un farsi interpreti del paesaggio.
Lasciamo concludere questa intervista a Pedro Leon Bastia, studente dell’Università di Pisa che ci ha seguito come performer e che si è poi laureato con una tesi su Sentieri e con cui continua il dialogo.
Pedro Leon Bastia: per Azul è necessario dal punto di vista etico estetico e politico portare l’arte in luoghi da riscoprire, si tratta di ritrovare il dimenticato e attraversarlo, per mettersi sulle tracce anche di ciò che forse noi abbiamo smarrito di noi. Attraverso l’arte è possibile leggere, decifrare e dare nuova vita ai luoghi dimenticati ma soltanto dopo un lungo processo di avvicinamento, ricerca, scoperta e studio caratterizzato da una precisa postura. Sentieri vive nel processo, non è definibile facilmente “è un’azione poetica in cammino, una pratica immersiva di ascolto e stupore”. Il processo è una fase lunga e si tratta di aspettare senza aspettarsi, fare silenzio, lasciarlo emergere, un silenzio interiore e un silenzio esteriore: spazio interno ed esterno sono infatti in continua risonanza. Bisogna essere in grado di farsi piccoli in un mondo così incredibilmente vasto, cercando di espandere il proprio io relazionale. Sentieri è una realtà non ordinaria caratterizzata da un’anima poetica e un linguaggio simbolico e evocativo. Può essere interpretato come una riflessione tra l’uomo e la natura, manifestazione di un modo di fare arte e di stare al mondo, dettati dall’ascolto umile, dal coltivare con cura la creazione, dal prediligere il simbolico al materiale e dallo spogliarsi delle vesti di quell’io che presume di poter definire, rappresentare e dominare ciò che lo circonda.
Per approfondimenti su Sentieri
La pubblicazione:
Serena Gatti, Sentieri. Teatri in cammino verso luoghi da riscoprire, ed. Rogas, Roma, 2021.
Gli articoli:
- Serena Gatti, Arare solchi in luoghi da riscoprire. Arte performativa che rigenera. Un progetto Azulteatro, «Aree interne e progetti di Comunità», ed. Pacini, Pisa, 2022.
- Serena Gatti, Drammaturgia antropocenica del paesaggio, «La Torre di Babele», Mupeditore, Parma, 2023.
- Serena Gatti, Drammaturgia onirica del paesaggio, in «Acting Archives Review” Anno XIII, numero 25, Università degli Studi di Napoli l’Orientale, Napoli reperibile su https://www.actingarchives.it/review/ultimo-numero/263-drammaturgia-onirica-del-paesaggio.html
La videoconversazione con Massimo Munaro, Teatro del Lemming:
Ipsedixit #37 Residenze per la ricerca teatrale 2022, Rovigo, dicembre 2022, reperibile su https://youtu.be/Vk3UbgvwhJE
Il podcast Esplorazioni Culturali. Voci impavide, realizzato da Fondazione de Marchi, Trento, marzo 2023, reperibile su https://open.spotify.com/episode/61bnhyF8xx1dikDCtiB4fB
La traccia audio di Pedro Leon Bastia: https://on.soundcloud.com/uRkog
La radiointervista di Maria Genovese per RadioFrammenti: https://soundcloud.com/user-286342543/sentieri-teatro-in-cammino-verso-luoghi-da-riscoprire-presentazione-libro-di-serena-gatti
Le recensioni: reperibili su http://www.azulteatro.com/recensioni-e-critiche-per-sentieri/
La tesi di laurea: Pedro Leon Bastia, In dialogo con il paesaggio, attraverso un teatro iniziatico, Tesi di Laurea in Estetica del Paesaggio, Tutore Alberto Leopoldo Siani, Università di Pisa, novembre 2022.
Link a una selezione di foto delle diverse edizioni: http://www.azulteatro.com/sentieri/
Link alle tracce video di Carla Pampaluna: Ogni traccia nasce guardando costruire Sentieri dai primi momenti di creazione fino alla performance. Non si tratta di un trailer, né di un documentario, è una tessitura video che fa immaginare il progetto a chi non l’ha mai attraversato dal vivo, restituendolo secondo lo sguardo di Carla Pampaluna visibile in http://www.azulteatro.com/%20tracce-video-di-sentieri/
Link alle tracce audio: https://soundcloud.com/user-229618111/sets/land
Ogni altra informazione su Sentieri e su Azul si può trovare sul sito www.azulteatro.com
su Youtube https://www.youtube.com/channel/UCySsDsU8U0rnYxVf8_bL4uA,
su Soundcloud https://soundcloud.com/user-229618111/sets
su Vimeo https://vimeo.com/azulteatro