Ventotto anni non sono pochi, lì a macinare coreografie espanse, accenti linguistici spossessati di uno spazio scenico canonico e ripensati per piazze, strade e cortili, persino riversi in parchi in quell’incedere di un quotidiano via vai dove si fa grande abbuffata di spettacolarizzazioni en plein air e, all’occasione, nel ristoro di spazi al chiuso appositamente ripensati per mantenere quella certa e rifrangente potenzialità dell’esperienza in urbano. Questo, per sommi capi, il pensiero che ha da sempre governato il disinnesco linguistico che il festival Danza Urbana di Bologna riusciva a mettere in campo, rispetto alla maggiormente prosaica costruzione di esperienze sceniche frontali. Per sommi capi, certo, perché la danza, urbana o meno, ormai da anni ha ripensato la propria genetica deragliando felicemente verso lo svuotamento dei codici (anche quelli che sostengono teoricamente il concetto della danza nell’urbano o nel paesaggio), anzi sovvertendone il carattere e il senso di quei comportamenti, smussando le estetiche e rivendicando una libertà di approcci come mai prima, e in questo modo sta metabolizzando (grazie anche a un pensiero post-drammatico prima e le intenzioni decoloniali oggi) anche le impervie rigidità della “forma”, laddove resista, in una progressione, che dura sin dagli anni Settanta ormai, se non prima, e dove si incista l’osmotico ancoraggio reciproco tra danza e performance. Una sottile linea, diremmo una faglia, una membrana, separa in questo tempo di ripensamenti esegetici i tracciati anche storici della danza da quelli della performance; abusando di parole consumate potremmo dire che danza e performance appartengono ormai allo stesso nucleo espressivo se per danza non alludiamo alla ricerca di una modernità generativa di allegorie del balletto o giù di lì (attualmente ancora in voga), e come per le piante epifite, l’una e l’altra (danza e performance) vivono alle spese della tradizione, la deridono anzi, ne fanno poltiglia magmatica per affermare (finalmente) un altro principio, un nuovo vocabolario in quella ibridazione anche del gesto più radicale. La danza urbana così intesa può essere allora uno strumento di trasformazione, ma anche di riposizionamento delle forme e dei comportamenti nell’ordine sociale, anche nel suo volersi superare all’interno del sistema delle arti. La danza urbana e tutte le diramazioni “esoteriche” di un comune denominatore che in senso figurato le archivia nell’alveo di azioni oltre il confine dello spazio scenico fornito di quinte, luci artificiali e fondali, è una felice anomalia estetica ed etica. È un ripensamento quasi naturale della danza nel procedere in quel confine (forzando in una sintesi più concettuale che fattuale) che da una parte raccoglie il dinamismo alla Wim Vandekeybus e i suoi oggetti, i suoi pertugi architettonici, mentre dall’altra trova connessioni con un certo situazionismo trasformativo alla Pippa Bacca, dove gli oggetti ridisegnano un proprio spazio vitale accompagnando l’idea di un tempo liberato, una psicogeografia di vita vissuta collettivamente. La danza urbana è dunque un processo a venire, sempre dilatato nel tempo, mai definito linguisticamente da geometrie coreografiche, finanche narrative. È una danza mutuata da grovigli e da ombre piuttosto che da unitarietà o perfezione. È un collasso dei segni! Possiamo concordare su questa versione? Nel tempo però, per consuetudine forse, un po’ ovunque, assistiamo a un ripensamento del fragore di quelle azioni esposte negli spazi pubblici, altrimenti dette danza urbana o danza nel paesaggio come prima indicato, un ripensamento che ha fatto riconvertire un po’ tutti gli artisti e tutte le artiste (al di là di qualche eccezione) in una sorta di “ritorno all’ordine” della danza nei luoghi e negli spazi non consueti. In urbano vengono riproposti lavori (movimenti, azioni, attitudini coreografiche) che non hanno una motivazione profonda dello stare lì invece che altrove, magari al chiuso. E il rapporto con i muri, i prati, i marciapiedi o le piazze sono spesso pretestuosi. Il festival Danza Urbana di Bologna (diretto da Massimo Carosi) o almeno quegli spettacoli incontrati nel frangente del 6 e del 7 settembre scorso (di un programma ben più articolato che andava dal 4 all’8), in qualche modo sembravano “denunciare” questa deriva, raffiguravano probabilmente una testimonianza involontaria (e inconsapevole?) di quel riportare in una misura decisamente meno eterodossa l’astrazione dell’urbano. Non va ad incidere sulla “confezione” dell’oggetto artistico, non mette in crisi la sua “bellezza”, ma proprio il senso della cosa che si fa lì e in quel modo.
Convocati in un’area asfaltata del Parco 11 Settembre 2001, il lavoro di Gaetano Palermo Swan ci accoglie con tempestività apparentemente casuale. La pattinatrice Rita Di Leo con tanto di parrucca e maschera di silicone, quasi a ordire una esuberanza da giovane rock star, si muove in quel circuitare ossessivo con deliberato ipnotismo che verrà interrotto da spari sul finale, quando l’ispirazione a La morte del cigno ci restituirà la lettura attualizzata che la coreografia di Michel Fokine costruì sulle nervatura di Anna Pavlova nel 1901 (già passione smodata di altre coreografe e danzatrici nell’ultimo ventennio), dunque per sancire la sua morte. Anche l’ascolto della musica in cuffia riporta una memoria recente quanto l’isolamento nella quale risiede il pensiero dell’azione, lo stare in un mondo a parte dell’interprete (benché tradita da “emotività” distoniche rispetto al contesto) evidenzia ancora una volta un discorso sulla percezione, sull’uso del tempo, sul deflagrare delle aspettative degli spettatori in quelle cadute (come ci viene indicato nel programma dello spettacolo), che sembrano non avere fine.
Anche il lavoro di Virgilio Sieni ci convoca in diversi luoghi e orari della città: Sleep in the car è un duo dove si alternano Jari Boldrini, Sara Sguotti e Maurizio Giunti, grandi interpreti del pensiero del coreografo fiorentino, alle prese con una certa intromissione del sonno e della veglia in un contenitore ordinario che definisce ruoli e tempi, l’automobile. La Diane (l’autovettura Diane) utilizzata ha quel qualcosa di impalpabile e al contempo concreto che rimanda ad altra epoca, immaginari letterari e rivoluzionari, un Sessantotto francese forse, un po’ lo stordimento percettivo al quale ci ha abituati Sieni negli anni. Due performer entrano, escono, sinuosamente e fisicamente aderenti, quasi si lasciano traversare dall’auto e non il contrario, dal sonno, per poi (non sempre) allungarsi nello spazio circostante con piccoli fraseggi coreografici di eccellente fattura (manco a dirlo).
Molto estroflesso, tutto riverso all’esterno e con caparbia insistenza attorale (dove non si nega espressività e concupiscenza rivolta allo spettatore), il lavoro di Richard Mascherin è un esorbitante esercizio di disequilibrio, uno spazio che annota cadute e vertiginose apici narrative. Vacío Espiritual è il titolo di uno spettacolo ch’è azione pura, rovinosi sbilanciamenti fisici ed effetti sanguinolenti laddove c’è altro oltre la sfera manifesta, pubblica, un rimando emozionale che intuiamo. Lui, che arriva anche dall’esercizio dello stunt, è molto bravo e forse si compiace anche un pochino. Il Giardino del Cavaticcio è di fatto un’area architettonicamente molto interessante, con aperture a diversi livelli e camminamenti d’acqua, quasi un fiume urbano (appunto), e qui risuona tantissimo quel suo fare paradossale di danzatore-performer abilitato a una lotta con gli elementi e i muri.
Nello stesso spazio Elisa Sbaragli ha presentato Mirada un lavoro, forse il più centrato in questo senso, calibrato sullo spazio ospitante; la tensione sonora crea un climax pregnante, lì a “fotografare” un’attesa mentre la performer è alle prese con verticalizzazioni gestuali, misurazioni spaziali, approfondimenti percettivi. È della percezione che parliamo, un lavoro rarefatto e diluito su un tempo che potrebbe durare infinitamente, noi dall’altra parte della riva di queste fenditure d’acqua scorgiamo in lontananza l’azione, la stessa riproposta in video in simultanea su un monitor che ci garantisce una amplificazione, un’eco di quella visione. Percezione, dunque, scavo dell’esercizio dello sguardo oltre misura.
Oltre(il)canone – N. 1 di Francesca Penzo e Mariagiulia Serantoni, con al pianoforte Margherita Casamonti, è invece un lavoro costruito per aderire alle “pareti” dell’Ex Chiesa di San Mattia, spazio restituito alla città e da tempo adibito a ospitare operazioni culturali e, naturalmente, spettacoli. Questo di Penzo-Serantoni è un excursus nel mondo della composizione colta ad opera di autrici che nella storia della musica hanno subito ostracismo; prosecuzione di una ricerca avviata già nel 2023, indagano l’attualità di figure marginalizzate, relegate in una sfera minoritaria, se non del tutto eclissate, come le stesse coreografe-danzatrici scrivono nel programma di sala. A ogni spettatore viene dato una sorta di segnalibro sul quale è riportata la biografia di un’autrice-compositrice e saremo noi sul finale dello spettacolo ad appendere questi su di un filo teso che taglia perpendicolarmente lo spazio, qualcosa a metà tra installazione e partecipazione attiva alla composizione, omaggio alle tante donne negate dal maschilismo culturale che da sempre governa la produzione musicale. Sono raccolte le testimonianze, riportati alla luce brani che svelano biografie eccellenti, e intanto se ne eseguono brani vibranti e commoventi. Tra le pareti della chiesa è difficile immaginare lo spettacolo fuori, in urbano, seguire con l’immaginazione le deviazioni coreografiche sin troppo pulite e perfettamente a loro agio nel “teatro”.
È una produzione spagnola lo spettacolo El resto del Naufragio di Roberto Olivan con le musiche originali di Pino Basile eseguite dal vivo. In scena una strepitosa danzatrice cubana, Chamely Hernandez, collocata al centro di una osservazione circolare per gli spettatori, un’arena metaforica e di fatto reale all’interno della quale assistiamo a un rito laico. Siamo nel Cortile dell’Istituto Storico Parri, tra mura che parlano di resistenza e impegno civile, scelta quanto mai appropriata per un lavoro in progress accumulatore seriale di tradizioni e immaginari in una commistione di generi nei suoni e nelle diverse partiture che l’interprete danza e balla, trovando persino un’accordatura poetica nell’essere portatrice di un testo recitato in spagnolo. Un assolo che si trasforma in duetto (con la partecipazione del coreografo) che riscalda i cuori di coloro che abbisognano dell’effervescenza gestuale e emozionale.
Festival Danza Urbana, Bologna, dal 4 all’8 settembre 2024.