È una delle sedici commedie nuove scritte da Goldoni nell’arco di un anno, in risposta a una sfida con il pubblico veneziano e con il suo impresario. Uno sguardo lucido sugli inganni e gli autoinganni della mente, Il giuocatore parte dalla diffusissima dipendenza dal gioco d’azzardo per estendersi alla dipendenza tout court. Anzi, è probabile che quella per il gioco sia metafora di una insana e umanissima soggezione della mente alle illusioni che accarezzano il cuore mettendo in ridicolo uomini e donne, lasciati soli e sconsolati a leccarsi le ferite. Perché, nonostante il lieto fine, il virus resiste e minaccia di fare danni ulteriori. E la consolazione di due coppie ricongiunte secondo inoffensivi canoni anagrafici da una parte e inattendibili buoni propositi dall’altra, non basta a garantire la guarigione. Né testimonia della loro felicità.
Dopo il brindisi e la festa il giro ricomincia. E malgrado i nuovi approdi, dalla nave non si scende.
È bellissima l’idea di ambientare la vicenda su una nave, una grande nave città dove i nostri entrano ed escono da porte e porticine, salgono e scendono tra il parapetto e il ponte di coperta, spuntano fuori da casse e barili come buffe figure beckettiane. Ciascuno solitario nei suoi piccoli e grandi deliri, ciascuno in relazione alterata con l’altro: manipolato, illuso, circuito, sedotto, abbindolato ma mai preso sul serio.
Tutti sguazzano nelle loro pie illusioni, tutti se la raccontano, qualcuno ci crede, qualcun altro finge di crederci, tutti credono al proprio desiderio, tutti sostanzialmente coincidono con esso. Che sia una vincita che ti cambia la vita, il corteggiamento di un poco più che ragazzo, una promessa di matrimonio sempre rinnovata e sempre rinviata.
Sono creature sfasate, traslate da sé verso una zona scivolosa che intenerisce e suscita il riso. Ti viene da dire non farlo, non dirlo, lascia perdere che è meglio così, ti prende in giro, ti sta turlupinando, ti dice che ti ama ma chi gioca non sa amare, ti fa contenta per rimediare cinquanta zecchini, fermati. Invece loro sono beatamente avviluppati in un loop che si stringe a ogni mossa. Però sono comici, a tratti ridicoli, e portano nei gesti, nella postura, negli sguardi, nelle mossette, nei risolini ammiccanti il loro mondo interiore. Sono caratteri, archetipi di caratteri appena esasperati, che la regia divertita e accurata di Roberto Valerio ha cavalcato in modo godibilissimo.
Florindo, il giocatore indefesso di Alessandro Averone, perseguitato dal numero sette, sempre in cerca di un capro espiatorio, in bilico tra la promessa di smettere, rivolta anche a sé stesso e il capitombolo sempre più rovinoso; la frivola Rosaura di Mimosa Campironi, con quel piedino vezzoso sollevato a metà, credulona e innocente, deliziosa; la vecchia Gandolfa di Alvia Reale, un trionfo di intelligenza e autoironia, non senza una malinconica vena poetica. Da custodire in archivio, il ballo arrapato e scatenatissimo con il Pancrazio di Nicola Rignanese, e i cedimenti di fronte alle lusinghe di quella simpatica canaglia che è il dannato Florindo.
Si recitano le voglie, le smanie, i picchi emotivi e i precipizi, le ire di Pantalone (Davide Lorino), incapace di risparmiare la figlia, la gelosia di Beatrice, l’amante non più e non meno illusa della sposa promessa (Roberta Rosignoli), la burla di due scaltri filibustieri, nei ruoli Massimo Grigò e Mario Valiani, due diavoli tentatori che spuntano fuori da ogni pertugio.
E chiudo con un azzardo ma quella scena di seduzione tra Florindo e Rosaura, un incontro clandestino strappato alle regole in cui lei civetta e lui ulula come un animale braccato, mi ha ricordato la scena madre di Ieri, oggi, domani tra Mastroianni e la Loren. Chissà se regista e attori ne sono consapevoli.
La scena e i costumi, colorati, appropriati, sono di Guido Fiorato, le luci di Emiliano Pona e le musiche originali sono composte da Mimosa Campironi, altro asso nella manica di questa giovane artista che si muove agilmente tra la prosa e la musica.
Il giuocatore
di Carlo Goldoni
adattamento e regia Roberto Valerio
assistente alla regia Irene Pagano
con Alessandro Averone, Mimosa Campironi, Alvia Reale, Nicola Rignanese, Massimo Grigò, Davide Lorino, Roberta Rosignoli, Mario Valiani
scene e costumi Guido Fiorato
assistente scene e costumi Anna Varaldo
musiche originali Mimosa Campironi
luci Emiliano Pona
capo macchinista Giovanni Coppola
capo elettricista Daniela Gullo
sarta Debora Pino
direttore dell’allestimento Tommaso Checcucci
realizzazione scena Laboratorio Scenografia Pesaro
riprese video Lorenzo Marianeschi
produzione Teatri di Pistoia – Centro di Produzione Teatrale.
Teatro Sala Umberto, Roma, fino al 14 aprile 2024.