Il diavolo tenta, il diavolo vuole possedere. Il diavolo ha potere.
Dalla storia più antica, dal peccato originale, dalla prima tentazione insita nel seno di Eva per trarre in inganno Adamo.
Il diavolo attrae e, spesso, è difficile fuggire da lui. Il diavolo non conosce ostacoli. Li impone e basta, in maniera subdola, persuadendo con fascino, ammaliando. Il diavolo è un essere terribilmente affascinante.
«Avvicinatevi ancora, ondeggianti figure apparse in gioventù allo sguardo offuscato. Tenterò questa volta di non farvi svanire? Sento ancora il mio cuore incline a quegli errori? Voi m’incalzate! E sia, vi lascerò salire accanto a me dal velo di nebbia e di vapori».
(Goethe, Faust, vv. 1-6)
Questa, la dedica dell’opera del Faust scritta nel giugno del 1797 e rivolta da Goethe agli «amici e ai primi amori» della sua gioventù che riemergono «allo sguardo offuscato», la cui nostalgia muove il suo canto come il vento smuove e fa suonare l’arpa eolia.
Perché Il maestro e Margherita (il romanzo scritto dall’autore russo Michail Bulgakov nel 1928 e terminato poco prima della sua morte nel 1940) rivela dei forti echi dell’opera di Goethe dove Mefistofele si divertiva a combattere il bene e dove il personaggio appare come un archetipo della hybris incarnato nell’uomo, il quale non accetta i propri limiti e conduce la sua vita nel costante tentativo (quasi sempre frustrato, o, anche quando vittorioso, fallimentare) di superarli. E benché Mefistofele affermi di non fare nulla gratuitamente, ma anche per volontà di Dio, in realtà tutto si svolge secondo la divina volontà.
Così, in una maniera molto simile, avviene nel romanzo di Bulgakov dove il diavolo tenta più volte di guadagnare il terreno per sé con premonizioni da magia nera, ridendo dei cuori umani, storcendo il viso agli amori puri, alle passioni, quasi come se temesse quella stessa passione.
Questo vediamo sul palco dell’Eliseo con Il maestro e Margherita per la regia di Andrea Baracco. Una regia vincente, che sorprende, che lascia a bocca aperta, senza fiato. Gli attori entrano in scena, vestendo i panni dei personaggi russi in vesti umane e raccontando un dramma umano appunto e alla fine poco surreale.
Michele Riondino (il diavolo) non sbaglia un’azione. È sicuro di sé. La sua voce rauca, profonda, arriva fino all’ultimo posto della platea. Agli spettatori, l’interprete – con un vistoso trucco – mostra le smorfie che un diavolo (o come il Jocker di Heath Ledger nel film Il cavaliere oscuro) può fare per persuadere chiunque voglia con garbo. Un garbo, però, spesso confuso con la gentilezza. Claudicante, con un mantello di pelliccia addosso, ci conduce fin dal primo quadro dello spettacolo e per tutta la sua durata, avvolgendo nel nero i colori dei suoi alleati del male contraddistinti fra loro da diversi physique du rôle: l’uomo magro che come una serpe si muove subdolo e abile nei suoi movimenti; l’uomo robusto, barbuto, che si sposta lentamente come un gatto e come un gatto, egoista e prepotente, si destreggia nei confronti degli ordini del proprio padrone; la donna bambina, perversa, incapace di provare bene e che sa fare soltanto del male, senza proferire una benché minima parola.
Fin dalle prime battute, a Riondino si contrappone la purezza di Francesco Bonomo, nel ruolo del maestro, impazzito per aver scritto un saggio su Ponzio Pilato e per essersi lasciato sfuggire il suo amore più grande, Margherita. Bonomo sa “attraversare” le parole, dare loro corpo: riesce ad accarezzare la sofferenza, a penetrarla, e con ostinazione ad andare avanti senza voler perdere tempo.
A metà strada tra i due caratteri forti, ma opposti, incontriamo una dolce e fragile Federica Rosellini (Margherita), bella nella sua purezza, la quale riesce, tuttavia, a interpretare l’incanto delle donne russe, che – a testa alta – sanno sfidare il demonio. Una sola pecca: la sua voce arriva poco in platea.
Il gioco forte dell’intero spettacolo è, poi, la scenografia firmata da Marta Crisolini Malatesta (che cura anche i costumi). Di primo acchito, l’impianto scenico ricorda lo stesso della messinscena Copenaghen di Michael Frayn. Anche ne Il maestro e Margherita, gli attori/personaggi sono avvolti da tre mura nere di gesso piene di scritte, di disegni, di frasi (in Copenaghen erano formule fisiche). Mura aperte (forse ai demoni dello spettatore?) con porte che si aprono e si chiudono e che danno vita a ulteriori incubi. Il ritmo è incalzante, non dà respiro, ed è talmente potente da rendere gli spettatori quasi “dipendenti” della situazione.
Baracco osa e osa bene, riuscendo a consegnare un romanzo che non ha un tempo, perché una storia di possessione, di amore, di cedevolezza di fronte al trionfo di qualcosa che va oltre i legami che una società può imporre, può esistere sempre. Può succedere in qualsiasi secolo. Niente viene trascurato nella pièce e il regista crea un’atmosfera che ha la forza di lasciare costantemente attonito lo spettatore.
Non credo di aver speso mai così tante parole positive per uno spettacolo teatrale. Non credo che le mie parole riusciranno a consegnare quello che la sera della prima, il 22 gennaio al Teatro Eliseo di Roma, i miei occhi hanno visto e le mie mani applaudito.
Il maestro e Margherita
di Michail Bulgakov
riscrittura Letizia Russo
regia Andrea Baracco
con Michele Riondino, Francesco Bonomo, Federica Rosellini
e con Giordano Agrusta, Carolina Balucani, Caterina Fiocchetti, Michele Nani, Alessandro Pezzali, Francesco Bolo Rossini, Diego Sepe, Oskar Winiarski
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Simone De Angelis
musiche originali Giacomo Vezzani
foto di scena Guido Mencari
Teatro Eliseo, Roma, fino al 3 febbraio 2019.