Il mio Teatro per la massa Intervista a Francesco Brandi di Maria Francesca Stancapiano

Foto di Ilaria Ruocco

Ho voluto intervistare Francesco Brandi, candidato come migliore autore di novità italiana con il testo Per strada al Premio Le Maschere del Teatro Italiano che si terrà il 5 settembre prossimo presso il Teatro Mercadante di Napoli. Francesco, che sta dalla parte di chi prova e fallisce, nonostante tutto reagisce anche in un urlo di sconforto, nella vita. Lui che ha nel cuore il rigore mancato di Roberto Baggio ai Mondiali del 1994, in un mondo in cui i giovani raccolgono pezzi di vetro delle proprie esistenze, mettendosi a nudo, cercando nelle risposte un confronto reciproco. Figlio dell’”egoismo”, con una tagliente ironia che riecheggia quella di Woody Allen, Francesco sta facendo del teatro la sua vita, passo dopo passo, ogni giorno.
Una breve chiacchierata con lui per capire qualcosa di più dell’attore-drammaturgo.

Luigi Pirandello ci dice che la fantasia un giorno gli portò a casa sei personaggi ma che li respinse poiché non vedeva alcun motivo per rappresentarli. Solo la loro insistenza ad essere rappresentati diventava un motivo per la loro rappresentazione, così il dramma divenne la ricerca dell’autore da parte dei personaggi. Emerse un dramma di genere analitico come le tarde opere di Ibsen, di Strindberg.
Le tue drammaturgie si possono decodificare delle opere analitiche tragicomiche e, in un certo verso, di carattere sociologico in quanto riflettono diverse sfumature di una generazione delusa da varie aspettative. L’attimo in cui in cui inizia il rito, della scrittura, come ti rapporti con il foglio bianco? A cosa senti di dover dare vita? Più al problema (e sai già che vai a trattare “quel problema”?) oppure a dar vita, corpo e forma ai vari personaggi che poi danno vita al tuo dramma? 

Generalmente parto da una suggestione, da un’idea di base e da una trama soprattutto. Da lì sviluppo il resto. Non trattandosi di un libro o di un romanzo, i personaggi si delineano per ultimi proprio perché invece è un testo destinato a una messa in scena. L’ordine della mia scrittura, quindi, è: suggestione, trama, personaggi. Ho sempre un’idea di quello che voglio raccontare che nasce da un fatto di cronaca che mi ha colpito, da un aneddoto che ho sentito, da un’esperienza personale. Voglio andare a fondo in quella cosa e costruirci una trama.

 

Nel momento in cui scrivi pensi già a come debba essere messo in scena lo spettacolo, immaginandoti la scenografia, le musiche, i costumi stessi dei tuoi personaggi oppure ti lasci andare allo scorrere della penna sul foglio (o delle mani sulla tastiera), dando più importanza al tuo bisogno di dire affidando, poi, alla figura dei vari registi il resto? 

No. Non mi interessano la scena, la scenografia, i costumi. Visualizzo le cose ma non avrei idea di come mettere in scena tutto quanto. Sono un attore che scrive, sostanzialmente, affidando il pezzo a una persona terza: questo “affidarmi” lo vivo come un arricchimento, anche perché, credo, debba esserci una separazione dei compiti.

 

In tutti i tuoi drammi, tu sei il protagonista ma non ne sei il regista. Cosa succede nel momento in cui affidi il testo a un’altra persona consapevole che possa esserci uno stravolgimento aggiunto o che qualcosa possa essere limato? Qual è il dialogo che si instaura tra drammaturgo e regista?

Ho sempre lavorato soltanto con una persona, Raphael Tobia Vogel. Il dialogo non è semplice: lui usa un immaginario, degli spunti, che sono molto diversi dai miei. La sua è una poetica fatta di immagini e a volta faccio fatica ad accettarla. Non è un dialogo semplice. È un dialogo composto anche da momenti di tensione. Difficile e necessario proprio per questo perché, dopo, nascono ulteriori idee interessanti che portano a unirci. Poi lui, caratterialmente, è molto più tranquillo di me. Il dialogo non può essere semplice se io ho scritto il testo e lo interpreto. Abbiamo iniziato insieme nel 2015 e in qualche modo, da quell’anno, ci confrontiamo quasi quotidianamente, facendo insieme il teatro. In teatri diversi, viene fuori la voglia di modificare, limare o aggiungere qualcosa, dettata da uno stimolo continuo. Non credo che potrei affidare il testo a un altro regista.

Foto di Noemi Ardesi

Lo spettacolo si conclude. Ne consegue il rito dell’applauso da parte dello spettatore. Cosa chiedono esattamente le tue parole al fruitore? Quale espressione vorresti che uno spettatore pronunciasse durante un applauso oppure dopo un sipario chiuso?  

Non lo so dire. Sono un uomo molto concreto e sono molto vicino alle esigenze del pubblico. Se si sono divertiti io sono contento. Ho un concetto molto più vicino all’intrattenimento. Dentro l’intrattenimento ci sono tante componenti che si compiono nell’hic et nunc ogni sera, che è diversa da quella precedente, sempre.

 

Che tipo di pubblico viene ai tuoi spettacoli? Come vedi il pubblico a teatro, in generale? Partecipe, composto, scomposto? 

Secondo me a teatro vanno le persone tra i 30 e i 60 anni. Un range di età portato a recepire i messaggi e le novità. Quando io vado a teatro mi infastidisce la maleducazione: come per esempio il cellulare. Ricordo che recitare è un’azione molto complessa perché dare corpo e voce a un personaggio non è facile, è uno sforzo di concentrazione evidente. A nessuno verrebbe in mente di disturbare un chirurgo mentre opera. Mi piace lo scambio alla pari tra attore e spettatori. È per loro che faccio teatro.

Come vedi la drammaturgia contemporanea? Quale pensi sia la tematica maggiormente utilizzata dai tuoi colleghi?
Quando vai a teatro cosa ti aspetti di vedere o come ti aspetti di uscire? C’è uno spettacolo teatrale al quale sei molto affezionato e che prendi anche come punto di riferimento? 

Vedo molta gente brava come il gruppo di Carrozzeria Orfeo. È bello quando compagnie come loro riescono ad andare avanti. Mi piace quando c’è una destinazione precisa. Quando c’è eleganza e divertimento. I temi più o meno sono sempre gli stessi. È il “come” che apporta la novità. Non mi piace il teatro civile, invece, perché noto più l’importanza di chi racconta che del contenuto che vuole trattare. Il teatro civile non mi interessa, non mi appassiona, perché completamente lontano da me.

 

Uno spettacolo teatrale a cui sei molto affezionato e perché? 

Il Grigio di Gaber. Avevo visto una registrazione e quando l’ho vista ho detto: «vorrei essere come lui», un po’ come il Cioni Mario di Benigni. Dentro c’era il racconto di umanità e di disperazione fatta con ironia, eleganza, delicatezza.
Io ho fatto e faccio cose diverse, ma mi piacerebbe arrivare a quei livelli un giorno, chissà…

In Italia la figura del dramaturg non è ancora del tutto riconosciuta in quanto da noi c’è, da un lato, il teatro di ricerca, che è un teatro molto vivo, dove il teatro di parola è meno centralizzato e dove soprattutto la rappresentazione di testi scritti da altri è spesso irrilevante. E d’altra parte, nei teatri stabili, è il regista stesso a fare da dramaturg: non chiede l’aggiunta, i costi di una figura esterna. Il dramaturg in Italia stenta a mettere radici per il fatto che sono prioritarie le figure del regista o dell’attore-regista che fa tutto da solo. Come vivi questa situazione? 

Ho avuto la fortuna di essere stato scoperto, sostenuto e prodotto da Andrée Ruth Shammah – da sempre anima del Teatro Parenti – che divide il suo impegno tra regia di spettacoli, direzione e rinnovamento degli spazi. Lei è per me molto importante perché c’è uno scambio continuo, quotidiano. Ed è un grande privilegio perché godo della possibilità di crescere sempre di più, sempre più velocemente, proprio perché ho una figura sempre vicina. Per me più che istituzionalizzare la figura del dramaturg, sarebbe da istituzionalizzare e dare più risalto agli attori, tutelandoli, pagandoli di più, amandoli di più. Sarebbe da ricordarci che senza gli attori non esisterebbe il teatro. Sono fiero di dire che sono un attore e che vengo da una famiglia di attori.
Bisognerebbe mettere al centro l’attore. Fino a qualche decennio fa il teatro era massa. Adesso, sta diventando una nicchia. Al critico piace molto il prodotto raffinato, ricercato. Come entrare in una bottega dove il biologico ha la meglio. A me, invece, piace l’Esselunga, un posto che dia da mangiare a tutti.

Hai mai pensato di riadattare un classico greco o latino in chiave contemporanea?

No. Mi piacerebbe un giorno fare Shakespeare senza riadattarlo. Da attore.