Il presente in rivolta di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo di Paolo Ruffini

Foto di Rebecca Lena, courtesy Centrale Fies

L’insufficienza del presente a trattenere quel fiume carsico ch’è l’eversione del corpo, la nervatura esposta e desiderante anche solo nello sguardo, tracce iconiche di comunità che si ritrovano in  ambienti fuori controllo disseminate come indizi, avamposti, territori che si aprono come feritoie di superfici urbane e che ne archiviano le esistenze furtive dentro il tempo quotidiano: il lavoro scenico di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo The present is not enough accende politicamente i riflettori su pratiche che “rammemorano” l’atto di esserci (performer e spettatori) così come si disvelano a chi di quel corpo, di quei corpi ne avverte una rivelazione, un’apertura sullo sconosciuto. E se l’archeologia porta con sé lo spazio negato ancora oggi ribollente di luoghi e riti di avvicinamento tra persone dello stesso sesso alla ricerca di incontri spontanei nella trionfante fragilità del rischio (sociale, di ordine pubblico, di decoro, di irriverenza morale), il gesto di rivendicarne una libertà notifica una diversa fotografia di una attualità ben più complessa e stratificata, dove il solo concetto di corpo nella sua vulnerabilità esegetica si verbalizza con esplicita rivendicazione di un tempo e un modo ulteriore di stare nella propria identità in movimento. Al cruising rimanda questo lavoro di Calderoni / Caleo costruito per sintagmi percettivi, così fortemente sostenuto da un pensiero senza che questo lo soverchi però, anzi, pensiamo a come l’ecologismo radicale, la riflessione decoloniale quale strumento di analisi dei processi creativi (che abiurano il codice e le tradizioni, secondo la prospettiva di Eric J. Hobsbawm), l’antispecismo anche della sfera emozionale, della queerness e del femminismo culturale e materialista si depositino nella concretezza figurale della scena di The present is not enough e a come la sintesi tra scrittura critica e corpo risemantizzato riveli un altro punto di vista sul mondo, sgretolando “abitudini” socio-culturali che storicamente hanno determinato potere e sopraffazione, un’unica ipotesi di piacere sessuale, un corpo normato esclusivamente al femminile o al maschile. Ed è proprio in quell’approssimarsi allo spettatore a sua volta coinvolto nel gioco di sguardi (guardato, guardando), che questo lavoro produce “senso”, trova la cornice allusiva di una relazione finanche erotica; imbastito un set che rimanda ai luoghi all’aperto di ritrovo e di consumo del sesso (pisciatoi, parchi, spiagge o reperti industriali in disuso: quanto memoire anni Settanta), è al contempo un quadro da teatro di posa con tanto di sagomatori su carrello che aprono squarci sulle nudità offerte, ipotizzando così un atto che non si compie ma ne sussume l’irriverente bellezza. Performer e spettatori stanno al gioco. Dove i corpi esposti non “raccontano” la sola tradizione di un mondo gay o bisessuale al maschile, il battuage qui definisce altre opzioni dell’“essere”, una condizione pronta a rivendicare una propria consapevole verità e dunque un proprio sapere, nel momento in cui – direbbe Michel Foucault – sapere e potere non sono disgiunti, laddove l’esercizio del potere è foriero di nuove forme di sapere e il sapere, çva sans dire, porta sempre con sé effetti di potere.

Foto di Rebecca Lena, courtesy Centrale Fies

È pur vero che, come scrive Didier Eribon (che di Foucault è stato uno straordinario biografo), le stesse cause producono medesimi effetti. Il potere di saper prendere parola, allora, ovvero autodefinirsi e non farsi definire, proiettare liberamente il proprio sé, rivendicarne l’autonomia rispetto alla violenza delle omologazioni eteronormate e patriarcali, ha un contenuto che rompe con la tradizione del “presentare” le cose secondo un uso sedimentato nel tempo, ma le designa nuovamente, ne dà la forma che più risuona in questa temporalità rivoluzionaria di attivismi e prese di posizione, finanche utopiche, finalmente strappate al dominio della conservazione. E utopia è la parola “tatuata” sul corpo, uno come gli altri che trasudano di quella verità (si diceva) esposta, sebbene vulnerabili nelle loro possibilità di genere non binario, vulnerabili ma esplosivi in quella bellezza incauta evocativa nella sua ibridazione dei segni, in questa architettura drammaturgica di un paradigma teorico decisamente potente nel tenere assieme ancoraggio concettuale e prassi scenica.

Foto di Rebecca Lena, courtesy Centrale Fies

Ciò che la performance dice lo fa nel disinnescare le declinazioni usurate del femminile e del maschile, polverizzando l’impalcatura simbolica, storica e sociale del genere. Sono corpi che agiscono in un terrario, una gabbia metaforica che riproduce un ambiente dove si è liberi di essere nell’impudicizia di una situazione immaginata o vissuta tante volte in quel consumo da voyeur. Ilenia Caleo dà il “la” arrivando al controllo della consolle dopo uno sinuoso movimento a terra attraversando orizzontalmente lo spazio; ogni performer si posiziona per poi rimodulare la propria postura, il proprio territorio d’“elezione”; chi si sdraia, chi cerca a ridosso di muri che vanno a comporsi per poi deflagrare, chi trascina una busta piena di indumenti o trova il proprio piacere a ridosso di un immaginario cesso pubblico con riprodotti graffiti di enormi falli. I loro sguardi catturano maliziosamente l’attenzione, il corpo è estroflesso, lasciato a indagare quelle nudità accennate o anche del tutto libere di iscriversi in una geografia anarchica, solo il segno ricorrente di ciuffi pelosi collocati in diverse parti di quei corpi (in collocazioni diverse) sembra sottolineare l’animalità da branco. Questo presente in rivolta di The present is not enough è semplicemente magnifico nel saper costruire una tensione costante, sempre tenuta sulla faglia della precarietà del gesto e dell’attesa, in quella possibilità umana – come scrive Milan Kundera – dove «esistere vuol dire essere-nel-mondo». Un lavoro di grande spessore con un suo posizionamento chiaro, sostenuto da performer perfettamente dentro quella esistenza di possibilità umana. Bellissimo!

Foto di Rebecca Lena, courtesy Centrale Fies

The present is not enough

 un progetto di Silvia Calderoni / Ilenia Caleo
con Giacomo AG, Tony Allotta, Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Gabriele Lepera, Fedra Morini, Ondina Quadri
suono Gabor + SC
cura e produzione Elisa Bartolucci
consulenza drammaturgica Antonia Ferrante, e moltx amicx* praticanti
co-produzioni AziendaSpecialePalaexpo – Mattatoio| ProgettoPrender – si
Cura, Kampnagel (Hamburg), Kunstencentrum Vooruit vzw (Ghent), Motus Vague con il supporto del progetto residenze coreografiche Lavanderia a Vapore (Torino).

Angelo Mai, Roma, dal 5 all’8 giugno 2024.