«L’idea iniziale di questo album è stata quella di chiudere definitivamente un cerchio». Sono le prime testamentarie parole di Moltheni, al secolo Umberto Maria Giardini, nel libretto dei crediti e dei testi accluso al suo ultimo lavoro in studio Senza eredità. E il cerchio è evidentemente quello della storia di un autore e cantante originalissimo, mai prestato alle regole del mercato, probabilmente per un reciproco disinteresse che negli anni si è incistato nell’indifferenza più acuta di entrambi, quella delle canzoncine da salotto festivaliero per capirci nei suoi confronti e quello dell’autore marchigiano occupato a proseguire una ricerca nel solco di una produzione di suoni generativi, di una vera e propria auto-tradizione, senza eredità, appunto, ma con radici profonde oltreoceano. A lui interessava crescere nelle sue convinzioni visionarie, mentre al mercato, come da prassi, cercare di domarne gli impeti. Uno dei suoi testi più forti di qualche tempo fa lo si può ancora leggere come metafora di una condizione attualissima, quella sua idea artistica, sostanzialmente di estraneità: «Credevo di essere un dente marcio nella tua bocca». La bocca è il sistema che nutre i Fedez di turno mentre è ignaro della bellezza. Sembrerebbe che lo pseudonimo Moltheni sia giunto al termine della sua corsa, dunque, per lasciare spazio a quel sé identitario chiosato già da alcuni dischi con U.M.G.; una parentesi perciò, un ritorno al passato momentaneo, una tappa retroattiva, questo Moltheni è fuori tempo, è “improprio” al suo tempo, ovvero pieno di senso, di eco che agganciano lo spazio quotidiano del vivere a quello memoriale, dove il tessuto sonoro progredisce come un racconto filmico alla David Lynch. Quel fuori del tempo che lo anticipa, come è stato per Nutriente – la comparsata a Sanremo nel duemila – lì a dirci cosa sarebbe stata negli anni a venire la canzone d’autore in ambito di alternative folk rock. E così è stata la superba Vita rubina estratto da quell’estremo archivio intimo album ch’è Splendore Terrore (pieno di sovrapposizioni visionarie quando dice «ho rivisto mio fratello e le sue mani buone, quelle mani adulte, che lo so, io non avrò mai»), oppure L’età migliore da un altrettanto capolavoro del duemilasei tratto da Toilette memoria, tutto un seminato straordinario che oggi si coagula nella sfera ancor più allucinata di Senza eredità, disco che giunge a proposito nell’avara offerta della musica italiana. E Senza eredità sembra riassemblare le materie della pacata disperazione del suo autore in quelle tracce, un richiamo al passato nei toni di fondo, con annesso “lascito” di una chitarra che suggerisce una distorsione “tonda”, resuscitata dal sound della fine degli anni Novanta e che si adagia levigandolo su questo extra pop curiosamente melodico. Apparecchiato come un affresco sul “levare” di accordi pieni in Me di fronte a noi negoziando un valzerotto sui generis per Ester, pezzo da sponda a quella memoria anche troppo dolce di un tempo che fu di Estate 1983. Come lui stesso racconta nel testo del libretto, questo disco nasce per recuperare uno spazio altro dell’altrove, un passato del presente così potente che incide in un pezzo che è già un programma, una tesi: La mia libertà suona come un marchio. «Dopo una ricerca durata oltre otto mesi, con l’ok della mia etichetta e con i suoi preziosi stimoli del mio amico Corradino Corradi, nell’estate 2019 ho contattato due persone che furono determinanti nei primi anni della carriera di Moltheni. In primis Nica Lepira, madre del mio produttore Francesco Virlinzi, che aveva gelosamente custodito moltissimi demo, provini e session improvvisate a Catania tra il 1997 e il 1999»; è l’atto estremo di verità di un autore che in solitaria, rispetto alle pulsioni commerciali e disincantate che radio e televisioni italiane propinano, si concentra invece sui temi a lui cari, destinazioni esistenziali di natura tangibilmente “reali”, quasi un intimismo materico, quasi una panoramica di slanci impressionistici che compattano la concrezione musicale di un disco rigorosamente definito e perfettamente armonico. Questo lavoro ha la forza di una militanza liminale, pieno di umori e rare «reminiscenze americane e trappole cattive», una esperienza davvero preziosa tenue e acida allo stesso tempo, un carattere che perlustra il profondo accampandosi su una certa malinconia del tempo che è stato. E oggi si guarda Moltheni, guarda l’esistenza dell’intorno, e noi con lui, ch’è ormai una sfumatura, una reminiscenza appunto fatta di stanze della mente che nitidamente attendono il dilatarsi del giorno. Il pianoforte scivola incidendo passaggi d’eco, le chitarre acustiche quando non si lasciano “rubare” da percussività che battono il tempo hanno un recondito segno d’archivio, anche del suo stesso archivio, di quel procedere per accordi “impensati” e che hanno raccontato tante storie private, ballads senza eredità ma che recuperano una infinità di memorie, straordinarie memorie, mentre gli arpeggi elettrici ricamano un contro-canto definitivo. Descrive la quotidianità, lui, l’altra, l’altro da sé, nel suo tempo, il corpo, i corpi, lo sguardo che si perde nei bagliori della natura tutta nella sua testa. E poi lo stridore meravigliosamente dinamico che sostiene una scrittura e un graffio vocale unico, depositando un malessere che non possiamo non condividere. Una bellezza che si erge ad amara consapevolezza, un discorso musicale dove «la felicità va in campeggio in tenda dentro ai centri commerciali» mentre si fa discorso poetico. Il disco uscito sul finire del 2020 non ha avuto ovviamente il tempo del tour promozionale, aspettiamo la possibilità del ritorno ai live dove Moltheni dà il meglio di sé.
Moltheni, Senza eredità, La Tempesta Dischi, dicembre 2020, euro 19,00.