Una lezione di regia che è anche una riflessione sul lavoro “trasparente” dell’attore, un’analisi storica del testo e un pensiero non laterale sul funzionamento di quella macchina narcisistica e autodistruttiva che è chiamata Uomo. In occasione del passaggio romano de La tragedia del vendicatore di Thomas Middleton, spettacolo travolgente per intelligenza estetica e vitalità interpretativa, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano con Ert-Emilia Romagna Teatro (versione italiana di Stefano Massini, musiche di Gianluca Misiti), Declan Donnellan ci dedica il tempo di una lunga intervista che tocca temi artistici e antropologici. Nato in Irlanda, inglese di formazione, apolide per mestiere, Donnellan vive a Londra assieme al suo compagno d’arte e di vita, Nick Ormerod, autore delle scene e dei costumi dei suoi spettacoli. Come cittadino londinese. si dice contrario alla Brexit: «È sintomo di nostalgia, e quindi di rabbia». Per lui il futuro ha un solo volto: quello dell’empatia, nemica acerrima della simpatia, dietro la cui maschera seducente si cela la passione per la guerra.
Dopo aver allestito molte opere shakespeariane, che cosa ha significato per lei avvicinarsi al mondo di Thomas Middleton e delle sue revenge tragedies?
Quando lessi per la prima volta La tragedia del vendicatore, pensavo che fosse stata scritta da Tourneur. Per cui cominciai a studiare le sue opere. Alla fine, la tragedia venne accreditata a Middleton, che è un grande scrittore drammatico. Era più giovane e in un certo senso più accattivante di Shakespeare (Troilo e Cressida era stato un flop) ed era stato chiamato per migliorare le scene delle streghe nel Macbeth. Ha scritto più city comedies di quante ne abbia scritte Shakespeare, e le city comedies erano molto popolari a quel tempo. Se la fama di Shakespeare non si è spenta fino ad oggi, Middleton ha una storia differente. Ciascuno di noi occupa uno spazio preciso e singolare dal quale guardare il mondo. Persino i gemelli non vedono le stesse cose.
Da quale differente posizione nello spazio Shakespeare e Middleton guardavano quindi le cose del mondo?
Ogni generalizzazione è banale. Middleton è cinico. Ma anche Shakespeare è cinico quando scrive Troilo e Cressida. Quello che possiamo dire è che Thomas Middleton è intrigato da temi come l’esibizione, la moda, la connessione tra il denaro e le feci (quest’ultima relazione interessava anche Marx). Il punto focale della drammaturgia di Middleton, se proprio dobbiamo trovarne uno, sta forse nella relazione tra punizione e dannazione (una posizione che condivideva con Wilde e Bentham) perché è assolutamente impossibile punire l’altro senza depravare anche se stessi. Benché in Shakespeare il pensiero della vendetta sia rivestito da nobili sentimenti, neanche per lui l’atto vendicativo porta qualcosa di buono. La vendetta ha la capacità di distruggere lo stesso vendicatore. Non impariamo mai dagli esempi di vita che ci hanno preceduto. Coloro che pensano che, vendicandosi dei torti subiti saranno felici, sono i più tristi. Gesù Cristo fu il primo a dirlo: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo?».
Nella complessità del suo lavoro teatrale, ricorrono alcuni temi. Uno di questi è il narcisismo. L’altro è l’autodistruzione. Sembrano intrinsecamente connessi.
Spesso noi poniamo noi stessi al centro dell’universo, e quindi della storia. Così, quando ci imbattiamo in un’opera che parla di corruzione, di consumismo, di mancanza di spiritualità, sentiamo che è “contemporanea”. Le strutture politiche e sociali possono pure essere cambiate dall’epoca di Middleton, e certamente a un certo livello è così, ma la natura umana non è cambiata. È la natura umana che ci porta a comportarci sempre nella stessa maniera. Per questo è necessario studiare e comprendere la storia. Artisti e scrittori dell’inizio del Seicento, da Shakespeare e Middleton a Caravaggio, si chiedevano attraverso le loro opere perché abbiamo bisogno della punizione, perché dobbiamo essere per forza crudeli, e le stesse domande sono giunte da autori del secolo scorso come Jarry e Artaud. Il bisogno di vendetta, la necessità dell’odio, sono tuttora i sentimenti più forti di cui crediamo di disporre. Ne La tragedia del vendicatore, Vindice trascina suo fratello e gli spettatori con sé, perché lo seguano nel “nobile atto della vendetta”; in questa sua follia fa cadere la madre e la sorella, e alla fine realizziamo con vergogna che anche noi siamo diventati “sporchi”. I pensieri che ci muovono sono: «Magari non sono bello come te, ma indosserò dei vestiti che mi renderanno più bello di te!». C’è, nel motivo della vendetta, qualcosa che è puramente fashion. E tutti i vestiti che oggi ci sembrano magnifici un giorno saranno squallidi. Quello che oggi è cool, nella decade successiva sarà semplicemente ridicolo.
Il male e il potere sono sempre fascinosi. È anche una questione di rappresentazione e soprattutto di auto-rappresentazione.
Già. È molto più importante essere un uomo che indossare abiti costosi. Diventare adulto è molto difficile. Non è una cosa che avviene con naturalezza. Abbiamo bisogno di lavorarci duramente. Questo lavoro spesso provoca delle ferite. La tragedia del vendicatore parla della corruzione dello Stato. Ma soprattutto ci racconta l’infantilizzazione del mondo, che secondo me è la cosa più terrificante. Quando hanno potere, i bambini sono terrificanti. Il dictat del bambino è: «Voglio tutto e subito!». La gran parte dei governanti si comportano così. Credono di essere adulti e potenti solo perché hanno delle segretarie. I governi sono così corrotti da credere che dietro l’imperativo del “voglio tutto e subito” ci sia del bello e del giusto.
Se si perpetua da secoli, vuol dire che il desiderio di rischiare tutto, persino l’autodistruzione, per ottenere il potere, ha radici più salde di quelle che possiamo immaginare.
L’auto-distruzione è un tema fondamentale in letteratura, tutti i più grandi scrittori ne sono stati ossessionati. Non soltanto Middleton, ma anche Sofocle, Racine, Corneille, Shakespeare, Cechov. Tutti loro parlano di personaggi che distruggono se stessi in modi diversi. Macbeth, Lady Macbeth e Otello, che commettono squallidi omicidi, mascherano se stessi gonfiando a dismisura le loro parole fino a raggiungere un livello di “grandiosità” sufficiente a convincere se stessi che questi vergognosi delitti siano invece altamente nobili.
Come si è trovato a dirigere un cast di attori italiani?
Avevo dimenticato quanto gli attori italiani potessero essere calorosi. Dieci tra i quattordici attori che sono in scena si sono formati alla Scuola del Piccolo. Abbiamo lavorato in un’atmosfera di grande apertura mentale. D’altro canto, io continuo a pensare che la prima e l’ultima parola la debbano avere gli attori. Sono loro che hanno in mano lo spettacolo.
Abitualmente lei lavora con produzioni straniere. Ogni volta un nuovo inizio?
Nick Ormerod ed io abbiamo creato spettacoli in francese, russo, finnico e ora in italiano. Ci piace esprimerci in lingue differenti. Ogni attore differisce dall’altro anche di più di quanto differiscono le lingue che parlano. Quando ho lavorato con il Bolshoi Ballet, per esempio, le persone mi chiedevano se mi mancavano le parole, i versi, i concetti. E io rispondevo che non solo non mi mancavano le parole ma che al contrario ero straordinariamente felice di fare una vacanza lontano dalle parole! Le parole ti aiutano a fare un pezzo di strada ma non ti portano molto lontano. Stai sicuro che se tu puoi esprimere qualsiasi “cosa” in parole, allora questa “cosa” morirà subito.
Quale è la sua opinione sulla Brexit?
La Brexit è un affare molto serio. Gli inglesi hanno la brillante capacità di nascondere il loro storico fanatismo. Quando erompe, è breve e mortale, ma subito dopo scompare dietro una quantità inimmaginabile di birra. Una delle cause della Brexit è il sentimento della nostalgia. Ma nostalgia significa rabbia. E amnesia. Una delle ragioni che hanno portato alla costituzione dell’Unione Europea è stata la volontà di fermare la possibilità di un’altra guerra europea. Il teatro ci aiuta a stare con persone che non devono essere necessariamente come noi, neanche simili a noi. Non posso immaginare niente di più politicamente utile in questo momento del tempo. La politica non dovrebbe limitarsi a urlare degli slogan. Politica dovrebbe significare “empatia”. E l’empatia è del tutto differente dalla “simpatia”. Attraverso l’empatia, noi possiamo stare con qualcuno che non è come noi. L’empatia ci porta a rispettare una persona che non ha le nostre stesse idee. Mentre la simpatia a lungo andare ci conduce verso l’odio e la guerra. Questo capita spesso in politica. Si simpatizza con le idee di qualcun altro, e non con gli altri, per cui arriviamo a odiare questi “altri”.
L’empatia e l’antipatia possono quindi andare d’accordo.
In un certo senso sì. In teatro, non devi necessariamente sentire e pensare le stesse cose dell’altro. L’empatia è un lavoro. Noi abbiamo bisogno di empatia e di immaginazione per comprendere i nostri amici e i nostri nemici. Immaginare che il nemico sia stupido o cattivo spesso lo aiuta a raggiungere più facilmente il potere. Questo meccanismo inconscio è parzialmente responsabile dello stato penoso in cui il mondo oggi si trova.
Se non si fosse occupato del linguaggio della scena, cos’altro avrebbe fare?
Non ci ho mai veramente pensato, forse un contadino o un giocatore di rugby come mio nonno!
In Russia, il suo metodo viene considerato un tassello importante della grande arte pedagogica rivolta all’attore. Insomma, dopo Stanislavskij e Mejerchol’d e i più giovani registi russi, c’è Donnellan. Come vive questa responsabilità?
Ho scritto un libro, The Actor and the Target, che ha avuto molto successo. In realtà non è esattamente un libro sulla recitazione, ma sui blocchi e gli ostacoli che possono manifestarsi sulla strada dell’attore. Ci sono impedimenti che si pongono tra sé e l’intimità. E questi impedimenti vanno aboliti. Su questo principio è basato il mio metodo. Ma è un metodo che si fonda sull’ascolto di ogni essere umano. Ciascuno trova la propria strada per l’intimità. Come per l’amore.
Le sue lezioni si fondano sul concetto di “trasparenza”. Che cosa rende un atto teatrale trasparente?
Il teatro è debole se non è forte dal punto di vista visivo, ma se il teatro non tocca l’essere umano, non può dirsi teatro. Ogni spettacolo che io possa allestire è artisticamente futile se non permetto a me stesso di essere sorpreso nell’immediatezza di una sala prove. E meno cerco di controllare tutto, più viva sarà l’esperienza teatrale. La vita è l’unica cosa che mi interessa. La teoria è molto importante, ma la vita ha la precedenza. Sempre. Le situazioni possono cambiare ogni giorno, è un flusso che è molto difficile descrivere. Come la vita, il teatro è un processo, non uno stato. Io ho bisogno della sala prove per sentirmi vivo nel tempo presente. Come regista, guardo oltre l’interpretazione, per assicurarmi che il contatto intimo tra gli attori fra di loro e tra gli attori e gli spettatori possa emergere. Preservare la connessione è molto difficile, ci vuole molta pazienza e attenzione. Perché ci sia vita, c’è bisogno di guardare oltre. Altrimenti al suo posto ci sarà la morte. Ma, a quel punto, una nuova forma di vita prenderà di sicuro il suo posto.
La tragedia del vendicatore
di Thomas Middleton
drammaturgia e regia Declan Donnellan
versione italiana Stefano Massini
con Ivan Alovisio, Alessandro Bandini, Marco Brinzi, Fausto Cabra, Martin Ilunga Chishimba, Christian Di Filippo, Raffaele Esposito, Ruggero Franceschini, Pia Lanciotti, Errico Liguori, Marta Malvestiti, David Meden, Massimiliano Speziani, Beatrice Vecchione
scene e costumi Nick Ormerod
musiche originali Gianluca Misiti
luci Claudio De Pace
foto Masiar Pasquali.
Teatro Argentina, Roma, fino al 3 febbraio 2019.