La seconda ondata della pandemia ha gettato il mondo del teatro in un nuovo sconforto. Dopo la bulimia di eventi dei mesi estivi, in cui il sentimento di profonda incertezza trascinato dal lockdown sembrava essersi lasciato alle spalle, il DPCM del 24 ottobre ha nuovamente fatto calare il sipario sulla scena dal vivo.
Appare diversa, però, questa seconda ondata, rispetto all’incubo vissuto tra la fine dello scorso febbraio e l’inizio di giugno. Contraddittoria, ambivalente, più confusa. Del virus sappiamo molte più cose, abbiamo assimilato – o dovremmo averlo fatto – le poche e semplici regole di prevenzione. Separati, disgiunti, mascherati all’aria aperta e alienati tra i muri delle nostre stanze, alterniamo un sentimento di rabbia all’accettazione della realtà, con la consapevolezza che bisognerà attendere il vaccino per tornare alla vecchia normalità. Fino ad allora, anche i teatri dovranno restare chiusi al pubblico.
Se da un lato fra gli addetti ai lavori regna lo sconforto (e in prima fila ci sono gli uffici stampa, al momento non tutelati: non considerati da un punto di vista contributivo “lavoratori dello spettacolo”), dall’altro qualcuno prova a vedere il bicchiere mezzo pieno. Rappresenta senz’altro un unicum nella rosa ristretta del teatro in carcere l’evento in diretta streaming dalla Casa di Reclusione Milano Opera, Noi Guerra! Le meraviglie del nulla della compagnia composta da attori e detenuti di media sicurezza Opera Liquida, inserito nel programma di BookCity Milano 2020: quattro estratti coniugano la presenza dal vivo di cinque detenuti e un’attrice, Giulia Marchesi, con l’arte cinetica e in video di Giovanni Anceschi. Un curioso ribaltamento delle funzioni tra interno ed esterno: la casa circondariale in questa seconda ondata, in cui ci sono sicuramente più strumenti di controllo e profilassi rispetto alla prima (che proprio nelle carceri aveva trovato terreno fertile per la diffusione del virus), può configurarsi sotto certi versi come una sorta di oasi incontaminata. Se è pur vero che ciò si realizza dopo il superamento di mille ostacoli burocratici, l’arte riesce a sfogare la sua necessità salvifica, inclusiva, sfoderando «i suoi strumenti trasformativi straordinari e di vicinanza fra mondo recluso e società civile», come li chiama la regista Ivana Trettel, secondo una modalità prossima alla normalità, dove lo spettatore può avvertire la presenza degli attori sul palcoscenico condividendo con loro la medesima dimensione temporale. Il teatro a porte chiuse, dunque, così come le prove, alla metà di novembre sono consentite.
Le attività di produzione proseguono, gli spettacoli teatrali possono essere convertiti in eventi tecnologicamente strutturati, prodotti culturali che intrecciano vari formati, da quello cinematografico a quello radiofonico. Persino i festival possono spostarsi sulle piattaforme digitali, senza dover rinunciare al lavoro di attori e tecnici. Proprio di questo ci ha parlato Rodolfo di Giammarco, giornalista e critico di “la Repubblica” e direttore artistico della rassegna TREND – Nuove frontiere della scena britannica, che da diciannove edizioni si svolge nella capitale. Esteso sull’arco di due mesi e previsto come di consueto al Teatro Belli, il festival ha esordito quest’anno, proprio alla vigilia dell’emanazione del decreto, il 23 ottobre: «Siamo riusciti quella sera a far debuttare dal vivo, secondo le regole del contingentamento che sappiamo, Wall di David Hare, curato e interpretato da Valter Malosti: ci sembrava un inizio favorevole, ma l’aria che tirava ci aveva già fatto avere l’iniziativa di rafforzare online la prospettiva dell’accoglienza fisica a distanza». Gli artisti programmati, infatti, hanno affrontato al Teatro Belli o altrove la loro performance, catturata con delle telecamere e lavorata con un immediato, successivo montaggio per una visione in streaming nelle date più o meno previste dal calendario. «Questo è stato un progetto» – spiega ancora di Giammarco – «nato in un momento in cui non erano chiusi i teatri. Dopo il DPCM ci siamo trovati con questa modalità parallela, che è diventata l’espressione sostitutiva e di sopravvivenza del festival». La sua posizione sul teatro in streaming è molto chiara: «Non ritengo che tutto il teatro sia trasferibile in streaming. Naturalmente, le operazioni di più potente investimento, quelle che vedono la presenza di molti attori in scena, non possono essere colte, registrate e montate in una forma soddisfacente, perché quando si ha uno scenario di una decina di attori non è facile collocarli in una sintesi. Lo streaming per me ha senso se legato, per dirla in modo antiquato, a un teatro da camera». Questa conversione permette se non altro di dare sostegno gli artisti: «così gli artisti non rimangono fermi, vengono testimoniati e il loro lavoro viene trasmesso nelle platee che diventano le nostre case». Da critico teatrale così ce ne descrive gli effetti spettacolari: «ci sono degli effetti dinamici, teatrali, quando viene messo in scena un allestimento recitato, mentre ho potuto constatare gli effetti drammaturgico-radiofonici quando ci sono state letture da fermi, quando c’è stato un tentativo riuscito di alcuni artisti di premurarsi di recitare un teatro radiofonico; e poi, perché no, ci sono gli effetti che sono sunti dai primi piani cinematografici degli attori che grazie alle telecamere sono assolutamente spiati nel volto, come non ti succede a teatro». Proprio per la combinazione di questi effetti a cascata, lo spettatore teatrale dovrà nutrire aspettative che sono completamente diverse dall’esperienza cui era abituato: «C’è un interesse diverso da parte dello spettatore. Sa che sarà tradito il suo attaccamento alla scena dal vivo. Avrà, però, più stimoli alla percezione. In questo senso, armandoci di pazienza e curiosità» – conclude di Giammarco – «se vogliamo vedere teatro possiamo anche accettare “momentaneamente” di sostituire il teatro con lo streaming».
Cosa ne pensano, però, gli spettatori incalliti del teatro in streaming? Lo abbiamo chiesto allo “spettatore professionista” Stefano Romagnoli. Residente a Foligno, di professione elettricista, ha fatto del teatro una passione così dirompente da seguire festival e spettacoli in giro per l’Italia pressoché quotidianamente, fino a diventare un vero e proprio influencer di settore, prima attraverso il suo gruppo Facebook spettatore professionista e poi come inviato di Trovafestival.com. «Il teatro in streaming per me è una cosa assolutamente falsa» – spiega Stefano Romagnoli – «non vi trovo nessuna corrispondenza con il fatto teatrale. Posso anche avere davanti allo schermo un grande spettacolo, ma è come non avere la percezione di ciò che sto guardando. Se mi metto davanti alla televisione e vedo un film, so che sto guardando un film; se so che è uno spettacolo teatrale e quindi ha delle sfaccettature completamente diverse, io non riesco a concentrarmi. Non vedo l’ampiezza del teatro, ma solo quello che viene inquadrato, che un occhio esterno mi costringe a guardare. Io quando sono a teatro osservo anche l’attore che in quel momento magari è “fuori scena”, che non partecipa in quel momento. Posso ascoltare ma scegliere di guardare altrove». La posizione di Stefano, quindi, è netta: un rifiuto totale. «Mi mandano molti inviti per vedere spettacoli in video, e a tutti rispondo: “Mi dispiace, ma non è per me vedere spettacoli in streaming, non riesco a concentrarmi”. Mi metto di fronte a una situazione che non è la mia, che mi estranea dall’essere partecipe di qualcosa. Guardo e basta, e guardare soltanto non fa per me». Per fortuna, il suo amore per il teatro non si esaurisce con gli spettacoli. Ha seguito alcuni eventi che ruotano attorno a quel mondo e che in questo periodo possono esistere sotto forma di conferenza in rete, come il festival Testimonianze ricerca azioni di Teatro Akropolis; già per sua natura incentrato sulla dimensione di riflessione, di studio, dell’atto performativo, l’undicesima edizione ha preservato e potenziato questo aspetto creando occasioni di discussione online con gli artisti: «del loro lavoro, di questa insopportabile crisi, dei processi di creazione di quegli spettacoli che, almeno per ora, non vedremo. Critici e studiosi hanno accettato di partecipare a questi incontri, e di condividere con noi, e con il pubblico da noi forzosamente separato, questi momenti di arte e di politica», si legge nella nota stampa di Teatro Akropolis. Abbiamo domandato a Stefano anche se c’è stata qualche eccezione. «L’unico invito che sono riuscito ad accogliere era in diretta: Gianfranco Berardi ha rifatto, da casa, una versione di uno spettacolo su Domenico Modugno, in cui ha adattato un po’ il testo drammaturgico, legandolo anche al lockdown e mantenendo il finale simile all’originale. Le operazioni in diretta sicuramente sono diverse, più accettabili dal mio punto di vista, consentono di eliminare un passaggio, di avere una mediazione in meno. Già viene a mancare tutta una prassi, una routine, di cui ho nostalgia, che è fatta ovviamente di socialità, di prossimità fisica: ci deve essere almeno un rapporto fra me e chi sta sul palco».
Proprio sulla relazione, tra i luoghi e le persone, si basa in questo momento la Stagione promossa dal CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, come ci spiega Fabrizio Arcuri, co-direttore artistico e regista teatrale: «Siamo uno dei pochi teatri che continua a fare uno spettacolo da mesi, per l’esattezza da metà giugno, e che di fatto consiste nell’acquistare un codice che ti permette di scaricare sul tuo smartphone una sorta di audioguida, da ascoltare in cuffia mentre si è in giro per la città di Udine». Si chiama Città Inquieta ed è stato realizzato grazie a un laboratorio di teatro partecipato condotto da Rita Maffei, co-direttrice del CSS, un progetto che ha unito la memoria storica e personale dei partecipanti all’interno di questi luoghi passando attraverso Il libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa. Così ce ne parla Arcuri: «Sono previste quaranta soste di un percorso, contraddistinte da una statua. Mettendovisi accanto si assimila una certa prospettiva di quel luogo, e nel frattempo al fruitore vengono raccontate delle vicende legate alla città di Udine che sono storiche e personali. Chiunque scarichi il podcast può andare in qualsiasi momento in questi luoghi, senza creare alcun assembramento. Finché sarà ancora possibile passeggiare, insomma, questa performance sarà consentita». Il concepimento di Città Inquieta è iniziato molti mesi fa, ad aprile, ma a prescindere dalla pandemia. Il progetto era infatti nelle more di un più lungo percorso del CSS, che accettava l’idea di non utilizzare il teatro affinché il teatro riconquistasse la città e andasse incontro alle comunità: «Questa attività andava accolta non come un ripiego, ma come la partenza di qualcosa di innovativo, a cominciare dal ruolo del teatro all’interno delle comunità». La posizione di Fabrizio Arcuri sul teatro in video, a differenza di Stefano Romagnoli, è più morbida: «Se devo vedere del teatro in streaming guardo i prodotti fatti dai grandi teatri internazionali. La questione è formale, in sostanza. Le condizioni in cui di solito operiamo in Italia sono di qualità talmente bassa che, francamente, deturpano l’idea stessa di teatro. Per me il teatro in streaming è accettabile qualora sia pensato come viene pensato all’estero, facendo un prodotto di altissima qualità e con una regia adeguata. Lo scorso confinamento ha rigettato nella rete qualunque cosa, e un po’ per affezione si è creato un movimento che ha seguito queste dirette streaming e questi tentativi di fare teatro online. Ora, se deve diventare strutturale, deve diventarlo a determinate condizioni, perché altrimenti la qualità bassa inficia la costruzione di un gusto e ne rende noioso e bidimensionale anche il contenuto. Al di là che la forma sia poco curata, il teatro non ne esce bene. Tra uno streaming fatto alla bene e meglio da un teatro italiano ed Hedda Gabler di Thomas Ostermeier nessuno avrebbe dei dubbi su cosa scegliere». E aggiunge: «Mi trovo molto più coinvolto a cercare di costruire dei percorsi alternativi utilizzando quello che già esiste, entrando in contatto con tutti quegli artisti che lavorano su dispositivi, meccanismi, modalità alternative, ma che lo fanno perché è nella loro natura. Mi sembra più interessante avvicinarmi a quel mondo per cercare di costruire dei rapporti con queste persone per aderire a un obiettivo, che è quello del CSS di Udine, di diventare un punto di riferimento della città, un luogo di pensiero in cui si costruiscono insieme degli immaginari. Da artista, in questo momento mi sento molto più stimolato nel cercare di capire queste cose piuttosto che adeguarmi io a farle, perché non sento l’urgenza personale di lavorare in quella direzione. Mi interessa mettermi in connessione con chi lo fa, perché è il suo pensiero e non perché è colto dalla pandemia. In questo momento, da regista, accetto la condizione e non mi sto forzando. Accetto di buon grado delle proposte, perché è interessante misurarsi. Per esempio, sto lavorando con Fausto Paravidino, Letizia Russo e Fabrizio Sinisi a una riscrittura originale dalla Divina Commedia prodotta dal Teatro Stabile del Veneto. Si tratta di tre spettacoli che debutteranno nel 2021, di cui stanno per iniziare le prove ma sono già stati fatti laboratori di scrittura, con i tre drammaturghi, e laboratori di composizione musicale, con Giulio Ragno Favero del Teatro degli Orrori, mentre gli interpreti saranno quelli che dal 2021 comporranno la compagnia giovane stabile del teatro. Con il CSS, invece, stiamo producendo otto documentari su altrettante produzioni che hanno debuttato nel corso di quest’ultimo anno e mezzo. Li metteremo online e saranno delle occasioni per ritornare su ciò che si è già visto, ma attraverso le parole e le voci delle persone che lo hanno realizzato, sperando che ciò incuriosisca per tornare a vedere quegli spettacoli dal vivo quando questo sarà di nuovo possibile».