Come e quanto la grande Storia incida e condizioni la storia minima degli individui è questione antica e dibattuta. Ma come comprendere questo condizionamento, come accoglierlo senza lasciarsi schiacciare, come salvarsi nel caso la nostra piccola vita sembri sfuggirci di mano, è uno scatto ulteriore. E chiama in causa le altre piccole storie che ti camminano accanto. Nel caso di Giuliano Scarpinato, autore e regista de Il tempo attorno, queste piccole storie sconfinano, si dilatano e diventano enormi, e vanno a condizionare e a imprimere una svolta alla grande Storia del nostro Paese. Sono le storie di due magistrati siciliani che rispondono ai nomi di Roberto Scarpinato e Teresa Principato, i suoi genitori, giudici in prima linea nei processi di mafia che hanno riguardato quelle stragi epocali, ormai parte della memoria collettiva.
Due puri, anche un po’ duri, con i quali lui, figlio unico quasi quasi partorito sulla vetta delle Madonie, dove una magistrata zelante al nono mese di gravidanza si era recata per assistere a un’autopsia, ha imparato a convivere. Ma così va la vita e tocca rassegnarsi, arrangiarsi, provare a fare di necessità virtù. Non sarà stato facile. Non è stato facile.
Ce lo racconta quel bambino trascinato dalla madre per la tromba delle scale, catapultato su una macchina in corsa verso il luogo di una strage di Stato che per lei aveva i nomi di due amici fraterni – Giovanni e Francesca – quel bambino che in silenzio la sentiva gridare al telefono “Francesca respira, respira ancora?”, quel bambino che ha domandato al padre “come si fa a sciogliere un bambino nell’acido, potrebbe succedere anche a me?”.
Ecco, quel bambino che ora è un accreditato attore e regista, è stato in grado di ottimizzare la sua fanciullezza, di monetizzarla, ammesso che il teatro sia fonte di reddito: già allora, senza ancora saperlo, probabilmente, ma incamerando, orecchiando, marciando fianco a fianco di due genitori immensi e difficili, provando anche a scartare di lato, remissivo o disubbidiente, ma sempre vigile come un adulto, sofferente e insofferente, non ancora ribelle ma lucido sì, pronto ad archiviare, immagazzinare, custodire emozioni e frammenti di vita in modo tale da poterne disporre, da poterli rintracciare al momento opportuno. Per crearsi il suo personale contrappasso, d’accordo, ma anche per offrire loro la carta vincente, quella della riabilitazione sicura, che si mangia il mazzo nella mossa finale. La rincuorante nemesi di una famiglia che Giuliano ha poi scelto di condividere.
Con l’imprimatur dei genitori, e forse pure l’orgoglio.
Il risultato è uno spettacolo in cui si avverte in modo evidente l’incubazione in un tempo lungo, il tempo della liberazione e del riscatto, sedimentata e superata la rabbia, recuperato e riscritto quel tratto di biografia nel quale ti eri sentito perduto, abbandonato, confuso, incompreso, può cominciare il racconto da partecipare a chi ascolta. Sbrogliati i ricordi e seppellito il rancore, si comincia a capire e quando cominci a capire il bisogno di raccontare diventa impellente.
Soprattutto se sei un artista, un autore, portatore sano di un tempo malato che riesce a produrre grazia e bellezza. Perché Il tempo attorno è un lavoro bellissimo e ci dice quanto il teatro possa far bene alla vita. Alla vita di tutti, non soltanto di quella di chi è direttamente coinvolto.
Il teatro ti fa vedere le cose con gli occhi di un altro ma ti invita anche a guardare con gli occhi di coloro che vuoi raccontare. Ti porge un assist che devi sapere raccogliere. Dando voce a tuo padre, a tua madre, ai due carabinieri che facevano loro da scorta: liberamente, senza intrometterti, senza sovrapporti, senza attribuire loro pensieri e parole che non penserebbero mai, soltanto perché tormentano te.
Quelli lasciali al tuo portavoce, ma dopo avergli spiegato la fine, dopo averlo tranquillizzato che prima o poi se ne esce. Trasformati ma salvi, da questo labirinto dorato che è stata la tua adolescenza.
Grazie al teatro, soprattutto, che sempre aiuta a capire e a capirsi. Di più e meglio di quei “lettini dei dottori della mente, quei triclinii del monologo interiore” di cui si dice alla fine, forse perché si sono scampati, o forse no, chissà, ma quello che conta è sapere che “è bello tribolare ancora vivi, non solo ricordati”.
Penso che il pregio e lo sforzo di questo lavoro sia la capacità di gestire, drammaturgicamente, un bagaglio emotivo pesante, ingombrante, imbarazzante. Molto diverso da quello di un ragazzino qualunque eppure sempre il bagaglio di un ragazzino. E la tenerezza che pare scontata, commuove, e a volte fa ridere, davvero, fa anche ridere molto, e fa molto pensare.
Il tutto si accompagna a un mestiere evoluto che permette di movimentare il racconto e organizzare il testo in modo diacronico, non strettamene cronologico, alternando narrazione in prima persona e scene vissute, flash in cui i ricordi riaffiorano attraverso un frigorifero vuoto perché il bambino era troppo ingrassato e a scuola i compagni lo prendevano in giro, nelle duecento scatolette di tonno accatastate sulla scrivania di un magistrato che non poteva distrarsi, nei colori di un mazzo di fiori della discordia, improvvidamente donato da un collaboratore di giustizia.
Storia vera con nomi inventati e attori verissimi, amici, complici, che si sono fatti carico del progetto insieme a Giuliano e lo hanno innervato. Sono Roberta Caronia, Giandomenico Cupaiuolo, Emanuele Del Castillo, Alessio Barone, Gaetano Migliaccio.
Della scena (Diana Ciufo) mi limito a dire che va vista e penetrata, perché è un po’ come entrare in un bunker abitato da individui ora in divisa ora vestiti in modo impeccabile, molto charmant (costumi Dora Argento).