“I’m still here/Ainda estou aqui”: la Dittatura brasiliana raccontata da Walter Salles di Monia Manzo

«La nostra è una famiglia felice distrutta dalle circostanze
della storia, come avviene oggi in vari posti del mondo,
penso all’Ucraina o a Gaza, e in Israele».
Marcelo Rubens Paiva

Uno dei registi più amati da sempre per il suo cinema d’autore è tornato: Walter Salles.
Dopo dodici anni dal suo ultimo film, On the road, e dopo venti anni dall’indimenticabile successo mondiale sul Che, I diari della motocicletta, il regista brasiliano arriva a Venezia e nelle sale dopo ventitré anni dalla sua ultima volta (Abril despedaçado, 2001).
Con la sua ultima fatica I’m still here/Ainda estou aqui, Salles narra una delle pagine più nere della storia del Brasile, quella che rievoca il terrore del Colpo di Stato (31 marzo-1° aprile 1964) conclusosi con la deposizione di João Goulart e con la fine della cosiddetta Quarta Repubblica brasiliana (1946-1964) alla quale seguirà la Dittatura militare (1964-1985).
I’m still here/Ainda estou aqui prende le mosse dalle memorie dello scrittore, giornalista e sceneggiatore Marcelo Rubens Paiva, figlio del personaggio principale del film. Ne deriva un dramma politico raccontato attraverso lo sguardo della moglie di Rubens, Eunice (interpretata da Fernanda Torres), la cui instancabile ricerca della verità sul marito si è protratta per decenni.
Nella fase storico-politica descritta nel film, in Brasile non sono mancate sparizioni dei “nemici” della dittatura, rapimenti, violenze fisiche e psicologiche subite ingiustamente dalle vittime e dalle loro famiglie.
Nel 1971, all’apice del governo militare, uno dei rapimenti più noti fu quello dell’ingegnere Rubens Paiva (un egregio Selton Mello) ai tempi ex deputato laburista.
Walter Salles rievoca gli eventi storici con un punto di vista particolare, ovvero quello della vedova del politico sequestrato, torturato e assassinato: la vita della donna, infatti, è stata completamente stravolta sia per l’accaduto sia per le modalità disumane con cui i fatti sono avvenuti. Il regista sceglie di riportare l’accaduto senza mostrarne la violenza, che è soltanto evocata come nelle scene in cui Eunice e la secondogenita Eliana sono interrogate in una prigione e sentono grida strazianti. L’abominio è lasciato all’immaginazione, eppure il terrore si fa cocente, reale, insopportabile.
Il film si apre con una serie di azioni colme di vitalità a Rio de Janeiro. Siamo nel 1971. Tutto avviene a ridosso dell’esotica spiaggia e in una casa distinta dove vive la famiglia Paiva composta dalla moglie Eunice e da cinque figli. Si respira l’aria degli anni Settanta, della libertà di costumi, della cultura più dinamica e progressista, si ascolta musica rock, si conosce la nuova musica tropicalista, si vedono film di Godard e di Antonioni, si fanno bagni, pranzi succulenti con amici, mentre Eunice si occupa di servire tutti con cura.
Ad accompagnare i movimenti della macchina da presa, oltre alla musica coinvolgente, troviamo un dinamico jack russell, simbolo dell’unione familiare, che incarna perfettamente, prima e dopo la tragedia, il mood dei personaggi. Non è un caso che, appena dopo la sparizione del capofamiglia, morirà investito da un’auto davanti agli occhi cinici dei poliziotti sotto copertura seduti in macchina (peraltro già individuati da tutti i membri della famiglia a causa della loro evidente e ossessiva presenza). L’atmosfera si incupisce ancora di più, la luce della fotografia si affievolisce, i toni sono scuri e a tratti tetri, riflettendo lo stato ormai inequivocabile delle cose. Infatti, nonostante non avesse più incarichi politici, Paiva aveva continuato clandestinamente a far parte della resistenza brasiliana, cosa che non era sfuggita alla polizia di regime che lo aveva spiato e schedato assieme a tutti i suoi compagni di lotte.
I’m still here concentra la sua efficacia e la sua potenza soprattutto nel ritrarre la tenacia umana di fronte all’ingiustizia e lo fa attraverso i personaggi di Eunice e delle sue figlie che evitano il carcere a costo di trasferirsi in altri luoghi come nel caso della primogenita, impegnata politicamente, che partirà per Londra in modo da sottrarsi a possibili ripercussioni da parte dei militari.
Il ritmo del film è molto serrato, non c’è alcun momento di stasi, e lo spettatore viene trascinato nella storia senza mai perdere l’attenzione. In un mondo distorto e distopico dove la vita delle persone è alla mercé di un governo autoritario, violenza e paura dominano l’atmosfera dell’opera. Lo dimostra la suspence creata dalla lunga sequenza che va dall’arresto di Rubens nella propria casa fino alla sua permanenza in prigione.
Il momento di svolta di I’m still here è rappresentato dal trasferimento a San Paolo del nucleo familiare ormai privo del capofamiglia: Paiva non verrà mai dichiarato morto (e mai considerato rapito ed interrogato dalla polizia) così fino agli anni Novanta, nel frattempo l’universo della sua famiglia scompare.
Si fa spazio al futuro, fatto di nuove generazioni e nuovi orizzonti: Eunice, ad esempio, si è dovuta reinventare ed è stata capace di ricostruire completamente la propria vita. Si laurea a quarantotto anni e conduce una strenua lotta per i diritti dei popoli in Amazzonia, ottenendo molti successi e riconoscimenti a livello nazionale.
Nella parte finale, il film sottolinea il paradosso della felicità provata dai membri della famiglia Paiva nel sapere che fosse riconosciuta la morte di Rubens come a volersi riappropriare di quell’identità negata dal regime e voler restituire la verità alla storia.
Fondamentale nella riuscita di I’m still here è stata la prova di grande attrice di Fernanda Montenegro (nel ruolo di Eunice anziana), candidata all’Oscar per Central Station, altra opera di Salles.
Un plauso va comunque a tutto il cast grazie anche alla capacità del regista di imbastire con sapienza la definizione e l’evoluzione dei personaggi che passano necessariamente per la determinazione dell’io sociale e politico, restituendoci racconti sempre e comunque ricchi di storie appassionanti e di vite straordinarie.