Del Ginesio Fest edizione 2024 ho afferrato la coda della cometa. Quanto basta per entrare in un flusso caldo di sensazioni che corrono per questo piccolo paese di quattromila abitanti in provincia di Macerata, San Ginesio, arroccato sui monti Sibillini a 700 metri di altitudine. Poco più di un borgo che per un’intensa settimana di agosto diventa palcoscenico a cielo aperto, accogliendo artisti e addetti ai lavori in un’allegra promiscuità di rapporti, situazioni, eventi. Non soltanto spettacoli e incontri dedicati, ma mensa comune, caffè e aperitivi sulla piazza principale, incontri più o meno casuali per strade che ancora raccontano del terremoto di otto anni fa, nonostante la cura dei residenti, ben manifesta agli occhi di tutti.
Non è un caso che Santo Ginesio sia il protettore degli artisti di teatro e, a guardare come se la passano oggi i teatranti, chissà se non è un caso che sia stato un santo martire. Ma battute a parte al Ginesio Fest si respira una sana aria di riscatto, una volontà di riappropriarsi del proprio spazio vitale in un momento in cui il teatro è fortemente penalizzato.
Ideato da Isabella Parrucci, ginesina doc, e diretto da Leonardo Lidi, il festival ha chiuso la sua quinta edizione dedicata al tema della solitudine, variamente declinata attraverso il monologo che, scrive Lidi nella presentazione, rappresenta “nel bene e nel male il fenomeno teatrale del 2000 e ha la peculiarità di raccontare, qualunque sia il contenuto dello spettacolo, lo stato di solitudine nella quale è immerso l’attore di oggi”.
Paolo Nani, Valentina Picello, Tindaro Granata, Eleonora Danco, Lucia Mascino, Rosario Lisma e Christian La Rosa, che ha sostituito al debutto Valerio Aprea, assente giustificato e rinviato al 12 settembre, sono i sette artisti per altrettanti monologhi che si sono succeduti nelle rispettive serate, momento topico di una programmazione che ha vissuto anche di specifiche iniziative collaterali: incontri con artisti e giurati chiamati a raccontarsi in un dietro le quinte rilassato e informale, curato da Christian La Rosa; laboratori rivolti ai bambini e agli adolescenti (rispettivamente curati da Stefania Pietrani e Davide Calvaresi) e i cinque giorni intensivi per gli allievi ed ex allievi dello Stabile di Torino e del Piccolo di Milano, guidati da Alessio Maria Romano in un energico lavoro collettivo confluito nella performance Concerto per corpi soli. E ancora, un calendario pomeridiano di spettacoli “per bambini e famiglie” che ha visto in scena Paola Giglio, Matteo Prosperi e Andrea Semeraro, oltre a Davide Calvaresi in veste di interprete di un testo autografo e la mostra monografica su Marcello Norberth, visitabile fino al 4 ottobre, interessante ma non ricchissima, che espone le fotografie di scena di alcuni spettacoli di Luca Ronconi, del quale fu sempre fotografo eletto, di Massimo Castri, di Federico Tiezzi. Ma non solo, perché non ci è dato di conoscerne i titoli, essendo le immagini prive di didascalie. Una pecca, purtroppo, che non mi so spiegare.
Ma tornando alla coda della cometa, voglio concentrarmi su un monologo che, della solitudine, incarna l’aspetto più malinconico e antiromantico, che nulla ha a che vedere con la hybris di scelte controcorrente, autocompiaciute o riverse sul proprio ego massacrato e infelice. Perché se di massacro forse si tratta, non è quello di un ipertrofico ego che scalpita ma di un povero diavolo probabilmente in balia degli ego altrui.
Si tratta di Giusto di Rosario Lisma, anche interprete, ed è lo sguardo disincantato ma attraversato da pietas, verso un mesto impiegato dell’Inps, sorta di personaggino gogoliano che Lisma ha ritratto a partire da una sua vecchia frequentazione. Di quelle che si sedimentano nel tempo e poi riaffiorano quando meno te l’aspetti e reclamano con forza di essere raccontate. Complice il lockdown, che sui ripiegamenti solitari e le loro ricadute, può rivendicare il copyright. Qui assistiamo a una lenta storia di formazione in cui uno spirito incontaminato e sguarnito, che porta il proprio nome, già di per sé frutto di un equivoco, come un ossimoro, si sente costantemente sbagliato, appunto: fuori luogo, fuori sincrono, in perenne disagio con tutto quello che gli ruota attorno, feste comprese, anzi, feste, innanzitutto. Quei luoghi odiati dove se non ti diverti devi fingere di divertirti, magari imbalsamato in orribili costumi carnevaleschi a cantare il karaoke, e dove “la pretesa di essere speciali rende tutti uguali”. Che intuito però, il Giusto! Che outsider! Chissà se l’autore è consapevole di avere creato un ribelle gentile che non si sa ribellare, una specie di fool che non sospetta di esserlo e che più che pietà fa simpatia. Un perdente predestinato che in vita sua non ha mai baciato una donna perché quando ne incrocia il viso abbassa lo sguardo. Un ragazzo del sud finito a Milano dove gli tocca fare i conti con i luoghi comuni di una giuliva signora che gli domanda se al sud cantano sempre quando mangiano la ‘nduja. Bene, Giusto, dal suo angoletto polveroso di mondo che non gira, guarda il mondo girare e se ne tiene fuori. Finché non sarà l’amore o qualcosa che all’amore somiglia a dargli una scossa. La tenerezza, forse, per una donna un po’ in carne e un po’ goffa che gli altri chiamano profiterole oppure un cocktail prodigioso che invece di ucciderlo lo ha miracolato. Sì, ma come? E, soprattutto, ne valeva la pena? La donna o il cocktail o forse entrambi. Forme diverse di resurrezione che non sapremo mai se saranno il viatico certo della sua rinascita. Non lo sapremo perché l’autore ce lo lascia soltanto immaginare. Ma liberamente, ciascuno a suo modo. Ce la farà, il Giusto di un tempo, a errare nel mondo senza diventare sbagliato? O diventerà infame anche lui, come i bulli arroganti che lo hanno schernito? Nel mezzo c’è il teatro, le idee, ben distinte dalle trovate, la surrealtà di un artificio per raccontare il rischio incombente di svilimento e omologazione, la performance di un attore solista che nel giro di un’ora dà vita a una decina di personaggi, tra battute sospese che si compiono nei gesti, nelle espressioni del volto, negli sguardi ma anche cantando e ballando da commediante consumato o semplicemente provandoci come un povero tapino.
Un artista che un premio senz’altro lo meriterebbe, magari proprio quello “All’arte dell’attore” di un San Ginesio delle prossime edizioni.
Quest’anno la giuria, presieduta da Remo Girone e composta da Rodolfo di Giammarco, Lucia Mascino, Francesca Merloni e Giampiero Solari, ha premiato Giuseppe Battiston e Vanessa Scalera.