Siamo sicuri che il mondo esista (si chiedeva Descartes)? Per Wittgenstein una domanda è possibile solo se ammette una risposta, e questa è possibile solo se qualcosa “può essere detta”. Abbiamo imparato che il mondo esiste ma ha infinite varianti nel modo di “rappresentarsi”, non una unica chiave di lettura anzi molteplici voci che lo interrogano e lo scansionano, non ultimi (in questo tempo del presente continuo) gli spazi di riflessione più che gli oggetti d’arte in sé, più delle stesse opere. Se abbandonassimo le parole e i gesti consumati dalla Storia dello “spettacolo”, capiremmo che oggi questi spazi di resistenza si sono assunti il compito di ridisegnare composite definizioni di mondo, nuove umanità e nuovi umanesimi. Spazi come comunità provvisorie, del nomadismo immaginario e politico, delle esistenze in bilico fra un “non più” e la ricerca di altre esistenze oltre il genere: identitario, sessuale, artistico.
Nel suo cambio di pelle avviato già da tempo, la ventiduesima edizione del festival di Castiglioncello Inequilibrio conferma quello spostamento progressivo di temi e esperienze sceniche o relazionali, ponendo l’accento sull’accadimento quanto sul diaframmatico rapporto fra spettatore e dispositivo culturale. Un’edizione giustamente dedicata a Lucia Latour, scomparsa recentemente, alla quale molti coreografi e danzatori devono il pensiero di un’arte del movimento coagulata nell’uso di spazi e architetture non conformi.
I luoghi abituali del festival diventano allora spazi, nella definizione data da de Certeau, ovvero luoghi vissuti e attraversati non soltanto nel tempo esiguo di uno spettacolo o di una performance, ma carichi di un portato umano ed esistenziale che determinano il valore percepito di quelle esperienze, qualcosa che amplifica gli appuntamenti in cartellone, appunto, e ne offrono una natura meno circoscritta al consumo proposto dal mercato. Una fra tutte, le processualità interne ed espansive del progetto Attika di Annamaria Ajmone e Industria Indipendente, dove la danzatrice di grande carattere stilistico dialoga con un ensemble (Martina Ruggeri e Erika Z. Galli) basato a Roma e ormai dedito alla scomposizione dei “modelli” per la scena, trovando un comune terreno di “rivolta” e di libertà nel desiderio di esperire contatti “risemantizzanti” ed “eversivi” rispetto al canonico esistere del proprio portato d’arte. Spaziando con esperimenti sonori e poetici o inneschi di manifesti filosofici o interventi coreografici, crew che si assottigliano e si dilatano allacciando nuove definizioni performative dal web agli spazi minimali al dj set o alla festa condivisa tra artisti e pubblico, Attika invita ognuno a trovare il proprio habitat nell’esposizione di identità multiple di sé (del partecipante come del performer), caratteristica per Industria Indipendente nel coniugare trascendente e “reale”, affermazione femminista e respiro letterario. Industria Indipendente è sicuramente una delle esperienze di punta di questo decennio, lì a scardinare i sistemi della percezione e dell’interpretazione rimettendo in gioco il senso stesso dell’azione artistica, condividendo processi, facendo deragliare le figurazioni culturali di cui si nutre un immaginario indotto e asservito a logiche di potere. Diventa invece uno spazio assorbito dal “fiato” figurale quello di Alessandra Cristiani, a Castiglioncello con un lavoro sempre in sottrazione ispirato da Egon Schiele, dal tratto eversivo dei corpi borghesi del secessionismo viennese abbandonati a una carnalità eterodossa. La performer ci accompagna in una cerimonia laica col solo corpo tratteggiato da un velo che contiene la pudicizia delle nudità dell’erotismo estromesso di Schiele; si sposta come per perimetrare il proprio spazio fisico in quella geometria esistenziale, mentre ci restituisce il dolore e la sopraffazione di un animo indolente e turbato, quello del pittore, in un segno muscolare e nervoso letterario e letterale. Magnetica la forma e lo sguardo della Cristiani esposto al nostro di sguardo, alla nostra ossessione di comprendere l’incompiuto, il non detto. Corpus delicti è negletto e inquieto, è nel passato ma vive il tempo dell’adesso.
Come la Cristiani concentra, Michele Di Stefano lascia depositare la danza “liberata” di Bermudas in rivoli e rimandi, quasi eco del movimento che si irradia come rifrazione visiva mnemonica nello spettatore. Qui assistiamo a uno spiazzamento di significati dove l’idea di concentrazione e di dispersione si avviluppano in un lavoro coreografico accumulo di segni e pertugi percettivi, facendo abitare i danzatori uno spazio della casualità e della ripetizione, un magnifico gioco crittografico delle posture e dei gesti indagati. Bermudas è la (apparente) libertà dai codici nella dinamica reiterata di assoli e duetti, formazioni più allargate o compresse in passaggi veloci, un quadro aereo impalpabile piuttosto che materico o terreno, corpi che verbalizzano un suono e dentro queste traiettorie e questi universi paralleli che esplicitano altri alfabeti in via di definizione. Uno straordinario inventario di vuoti e raffigurazioni, di mancamenti e ipnotica performance. Anche Enzo Cosimi con Glitter in my tears – Agamennone nel prendere a pretesto la figura dell’eroe si libera di materie che “ingombrano” la scena, concentra sul corpo operoso dei danzatori uno spazio del “desiderio”, avvertendo la necessità di scandagliare ancora in quel corpo (contratto fra teatro e gesto) una manifestazione iconica critica.
Verso una sfera ch’è prima degli interpreti e successivamente dello spettatore di individuare in quella forma intima ed esposta nelle nudità allo stesso tempo un soma indotto e una personalità liberata. Abbiamo già scritto su Liminateatri di questo lavoro (https://www.liminateatri.it/?p=1086) come di una tessitura barthesiana, di un grado zero della scrittura (e della vocalità), uno spartiacque tra danza e concetto nell’innestare la chair di Merleau-Ponty all’impermanenza di Nicolas Bourriaud. Al teatro si rivolge Miserabili- un’ironica atroce poesia di Milena Costanzo. Il teatro che smonta e ridefinisce spazi e personaggi derivativi dall’opera di Victor Hugo, sovrapponendo le anime del romanzo in entrate e uscite magmatiche di narrazioni sintattiche, in scontri accesi e inediti ritratti dei personaggi. Acido, divertente, un pastiche di effetti e interpretazioni che hanno il ricordo di una costruzione metafisica alla Barberio Corsetti dove i piani si aprono architettonicamente a un espressionismo poetico calibrato nei tempi; uno spettacolo, di fatto, che guarda a un paradossale naturalismo per parlarci delle povertà di oggi, alla catastrofe dietro l’angolo.