Durante le riprese del film La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, una mosca volò sul set e si posò sul volto della protagonista. Apparentemente, possiamo leggere questo avvenimento come un dettaglio insignificante, un imprevisto che poteva essere facilmente risolto tagliando in montaggio l’inquadratura. Ma ecco che quell’elemento si trasformò in altro, quando il regista decise di conservarlo, fissandolo per sempre nella sua opera. Questo accadimento è l’esempio perfetto di ciò che possiamo definire una “deviazione”, una traiettoria che cambia improvvisamente la sua rotta perché qualcosa di nuovo irrompe sulla scena. E non è un caso che a stravolgere quest’ordine prettamente umano sia il movimento di un insetto, che a differenza di chi crea seguendo delle regole precise, si affida a nient’altro che al suo istinto. Tenendo ancora per un istante in mente il volo della mosca e immaginando di aggrapparci alla sua schiena e di seguirla, lasciamoci guidare da lei, addentrandoci in un esperimento che al potere trasformativo delle Deviazioni è proprio dedicato. È questo, infatti, il titolo della rassegna teatrale – che dal 20 al 22 dicembre 2023 a Napoli, nel quartiere di San Giovanni a Teduccio – ha preso vita all’interno della Sala Ichòs, uno spazio di resistenza culturale aperto e attento da anni ad accogliere realtà emergenti. È qui che la compagnia napoletana falsepartenze teatro, con la direzione artistica di Gianluca Bonagura, ha portato avanti un esperimento poliedrico e originale, creando un’occasione di confronto e di scambio unica e necessaria, a cui ha preso parte anche il regista argentino César Brie, che durante queste giornate ha tenuto un laboratorio dal titolo Pensare la scena, incentrato sulla preparazione fisica degli attori e sull’improvvisazione.
La rassegna è stata pensata per ospitare artisti e compagnie under 35 provenienti da diverse parti d’Italia. È questa l’intenzione con cui è nata, racconta Gianluca Bonagura: «Ho pensato semplicemente a un evento che potesse deviare da tutto ciò che c’è già attualmente, e l’augurio che mi facevo è che questi giovani potessero deviare, creare nuovi percorsi, nuove strade per il teatro italiano. Uscire dai nuovi binari e prenderne di nuovi, con fondamenta rinnovate».
La natura originale e sperimentale di questa rassegna – e il suo carattere drammaturgico a tratti zoomorfo – trova nell’illustrazione realizzata da Domenico Lettera per l’occasione una bellissima espressione. Una fermata dell’autobus accoglie e allo stesso tempo contiene una serie di figure umane su cui si sovrappongono tratti animali. Questa contaminazione sembra suggerirci che la deviazione – in quanto spazio inesplorato, non lineare, di rottura con l’ordinario – rappresenti in realtà il confine che ci accomuna all’animale per la sua natura istintuale, lì dove l’istinto sembra essere ancora oggi per l’uomo l’unico strumento di libertà e di evasione, in un mondo dominato dal culto della produttività e dalla perfezione, che in quanto tale cerca di addomesticare l’informe più che lasciarlo manifestare ed essere liberamente.
Dopo il concerto di apertura di Lola Moe, nome d’arte di Dolores Gianoli, attrice e cantautrice italo-ivoriana, che ha suonato in anteprima tre brani inediti, con lo spettacolo Nessuno ha preso finalmente il via la rassegna. Eccola, allora, la prima deviazione a cui siamo chiamati, il primo spostamento che conduce lo spettatore nelle zone più profonde della psiche, che domanda a chi assiste a questa performance di abbandonare i riferimenti più comuni, rassicuranti e lineari per affidarsi a un solo movimento interno, quello del pensiero che nel suo fluire cambia continuamente la sua direzione, a causa della sua natura intermittente. Prima ci guida verso un sentiero, poi prende improvvisamente un’altra strada, costringendoci a seguirlo, esattamente come la mosca su cui siamo ancora metaforicamente aggrappati. A disorientarci è prima di tutto la scena, ingombra di sacchi di plastica colorati, immagine di una deriva, di qualcosa che si presenta già sull’orlo della fine. Originale, oltre a questa immagine di per sé molto evocativa, è anche il punto di partenza. La drammaturgia si apre con una ricetta, quella delle uova alla Benedict, che all’inizio è un appiglio, una forma logica e ordinata, ma poi diventa gradualmente altro mano a mano che schegge sempre più ingombranti trafiggono il pensiero.
Il testo di Giulia Cermelli, che di questo lavoro ha curato anche la regia, è una rappresentazione del burn-out, dell’accumulo eccessivo, di quell’overthinking tipico della generazione dei trentenni di oggi, che ingombra la mente al punto da farla esplodere. A dare voce a questo assillo interiore è Luisa Mar Gal, attrice che alternando la lingua francese all’italiano riesce a restituire, attraverso registri e toni completamente diversi, due esperienze opposte, quella interiore in cui il nostro Io dialoga con sé stesso, finendo per autofagocitarsi e quella in cui ci rivolgiamo verso l’esterno, con la speranza che gli altri ci liberino dai tentacoli della nostra mente.
Il disegno sonoro di Anna Cermelli intensifica e accentua il carattere delirante di questo monologo, che ogni tanto si spezza, si interrompe, in un tentativo di dialogo con il pubblico che in realtà non è altro che una disperata richiesta d’aiuto. Nessuno, pur essendo ancora in una fase di studio e di ricerca e dovendo ancora insistere sul crescendo e sul ritmo, riesce nell’impresa difficile di disturbare, di metterci in contatto con le nostre dissonanze. Nel pieno di questo processo, fa la sua irruzione sul palco un pensiero intrusivo, incarnato da un’attrice – Isabella Rizzitello – che è al contempo metafora del senso di colpa che domina il nostro pensare, sottofondo che controlla il fluire libero della nostra psiche.
Ritroviamo lo stesso sistema punitivo interiorizzato in 141 Dialogo per una persona sola, primo studio di un lavoro che ha come spunto di partenza un autobus che porta al mare. Ad una fermata una donna aspetta, ma quell’attesa, come in una pièce beckettiana, diventa l’occasione di uno spazio di apertura del proprio Io, che si muove disordinatamente, che sempre più frequentemente si incaglia, perché è anche questa l’essenza di una deviazione – un’incagliarsi, un aggrovigliarsi del pensiero su sé stesso senza via d’uscita. Anche qui, come in Nessuno di Giulia Cermelli, l’autrice del testo, Maria Silvia Greco, sceglie di inserire accanto alla protagonista, che lei stessa interpreta, una figura quasi burocratica, a cui Elvira Scorza riesce a dare attraverso la parola e l’azione una precisa connotazione. È un sistema che non perdona, che segue delle regole e che non concede smarrimento, come se la nostra esistenza fosse dominata da un grande occhio che spia i nostri stati d’animo e che ci punisce quando non siamo abbastanza felici, tanto che a un certo punto di questo dialogo impossibile tra le due donne scatta la denuncia per lacrime. In un mondo in cui l’emotività è bannata, come segno di debolezza e fragilità, a scapito di un sistema produttivo che ci vuole sempre sorridenti ed efficienti, piangere non è assolutamente consentito. 141 Dialogo per una persona sola riesce bene nel restituire la condizione di solitudine, di abbandono. Anche qui, come in Nessuno, prevale l’immagine della deriva. Se nel primo spettacolo questa era rappresentata da un tappeto di sacchetti di plastica rigurgitati dal mare, qui è la sabbia di una spiaggia a cui non si è mai arrivati a restituirci il senso di smarrimento. Questo scontro tra le due coscienze, quella più libera e fluttuante, interpretata da Maria Silvia Greco e quella più oscura e gerarchica, restituita da Elvira Scorza, potrebbe assumere i contorni di uno scontro ancora più feroce, così da far emergere con una forza maggiore, più intensa e più ritmata, l’audace lotta quotidiana tra il nostro mondo emotivo e la realtà, a cui ogni giorno siamo chiamati.
Quando l’ultima sera salgono energicamente sul palco i due fratelli Alice e Davide Sinigaglia, muovendo i passi del loro Concerto fetido su quattro zampe, vincitore del Bando Powered by REF, la dimensione istintuale, a cui finora ci siamo avvicinati più marginalmente attraverso i primi due testi, prende il sopravvento perché trova qui la sua forma più estrema, libera e dionisiaca nella musica, che diventa strumento per gridare, proprio come in un verso animalesco, ciò di cui vogliamo liberarci, ciò che è stato troppo a lungo taciuto perché scomodo e censurabile, come se ai due attori e ai musicisti fosse stata tolta finalmente la museruola e non a caso è proprio in dei cani che si trasformano verso la fine dello spettacolo. Un manifesto generazionale, politico, scanzonato e dissacrante. Per usare le parole degli autori – un connubio a metà tra un rap dimenticato e un pamphlet filosofico. Come Jacques Derrida, autore citato in uno dei testi, prova vergogna nell’uscire dalla doccia nudo e nel trovarsi di fronte la sua gatta che lo scruta, lei che a differenza dell’uomo è nuda senza sapere di esserlo, così anche lo spettatore si sente osservato e smascherato da questi due ragazzi che con leggerezza e intelligenza sfidano il linguaggio, si alternano alla batteria, indossando delle maschere animalesche che hanno immediatamente un effetto comico e esilarante indossate da quei due corpi che da un momento all’altro schizzano come cavallette e schegge impazzite da una parte all’altra del palco, provocandoci e interrogandoci sull’animale che dunque tutti noi siamo.