Nel vasto e multiforme panorama delle realtà italiane che operano nel settore delle performing arts, occupa un posto speciale la compagnia Instabili Vaganti fondata a Bologna nel 2004 grazie all’impegno di Anna Dora Dorno, regista, performer e artista visiva, e Nicola Pianzola, performer e drammaturgo. Poche altre compagnie teatrali italiane riescono, infatti, a gettare il loro sguardo all’estero: in Oriente, in America Latina, nei luoghi più remoti del nostro pianeta, e a portare in giro i loro spettacoli, spesso affiancati dai laboratori che condividono con performer e persone di culture diverse, e che interessano studiosi di arti performative, ma non solo. Perché di fatto non si può dire che siano semplicemente artisti, gli Instabili Vaganti, ma anche eccellenti organizzatori. Viene da chiedersi come facciano, ogni anno, a prevedere i loro lunghissimi spostamenti. Come si fa a pianificare un “World Tour” all’anno? La domanda non vuole essere provocatoria, ovviamente, ma è frutto di un sincero stupore, se si pensa anche solo allo scoglio linguistico, alla fatica nel comunicare, nel contattare, di giorno e di notte, operatori e partner compatibilmente con i fusi orari vigenti dall’altro capo del mondo. Lo abbiamo chiesto a loro “come si fa”. Ci siamo anche noi scambiati messaggi vocali in differita, nella maniera che più si addice alla comunicazione concessa alla pervasiva tecnologia coeva, ma solo per “necessità”. Perché il World Tour 2019 degli Instabili Vaganti è già iniziato. Ci rispondono dal Kerala, prima tappa del Tour che toccherà in tutto sei paesi – India, Nepal, Tunisia, Uruguay, Cile, Stati Uniti e Svezia – e che, oltre alla circuitazione degli spettacoli Il rito e Desaparecidos#43, prevede workshop e conferenze in sedi prestigiose come università e festival internazionali.
A fine gennaio siete stati con lo spettacolo Il rito a Thrissur, all’International Theatre Festival e poi a New Delhi con il XX Festival Bharat Rang Mahotsav, dove andrà in scena Desaparecidos#43. Come si fa a organizzare un tour così importante? Ci sono state delle rinunce, delle scelte sofferte?
La nostra tournée internazionale quest’anno è iniziata a fine gennaio con la partecipazione all’International Theatre Festival del Kerala, dove abbiamo fatto tre repliche de Il rito tra il 25 e il 26 di gennaio. In questo momento siamo andati via da Thrissur, sede del festival, e ci troviamo in un luogo imprecisato del Kerala, in mezzo a una giungla e a dei canali. Siamo in un momento di transizione tra il festival del Kerala e il Festival Bharat Rang Mahotsav, il più grande dell’Asia, che si tiene alla National School of Drama con sede a New Delhi. Qui faremo, invece, due repliche di Desaparecidos#43: l’11 febbraio a New Delhi e il 13 a Mysore; dopodiché passeremo per l’Università di Pune, in cui terremo un workshop con gli studenti, per poi terminare la tournée in Nepal, ultima tappa di questa prima fase del World Tour 2019, dove saremo l’1 marzo a Biratnagar e il 4 marzo a Katmandu, al festival internazionale.
Organizzare una tournée così complessa è per noi davvero difficile. Da sempre coesistono in noi due anime. Siamo una compagnia indipendente o almeno quella che una volta si chiamava così, anche se non so quanto sia rimasta ancora in auge questa espressione. In ogni caso, “indipendenti” lo siamo rimasti: progettiamo da soli le nostre tournée. Coesistono in noi un’anima artistica e un’anima organizzativa, e chiaramente c’è “artisticità” anche nella parte organizzativa: se penso anche alla particolarità dei luoghi, che sono sempre più impossibili da raggiungere. Dal punto di vista logistico, quindi, sì, in questi quindici anni di attività siamo diventati delle piccole “macchine da guerra”. Tuttavia non mancano imprevisti e rinunce. A proposito di imprevisti, siamo partiti in maniera abbastanza disastrosa: uno dei tecnici non è riuscito a prendere il volo, non l’hanno fatto imbarcare, e il giorno stesso abbiamo dovuto comprare un volo ex novo, rimandando il montaggio e creando già un “buco” economico in un viaggio che era stato pianificato al centesimo, ovviamente.
Una tournée internazionale ha dei costi molto elevati. Da dove provengono le risorse?
Siamo noi che troviamo le risorse e mettiamo insieme più partner e sostenitori per far sì che il progetto della tournée diventi realtà. Per questa, in particolare, abbiamo l’appoggio della Regione Emilia Romagna e degli Istituti di Cultura di New Delhi e di Mumbai. Abbiamo dovuto incastrare tutto. L’invito in Kerala è arrivato all’ultimo momento, quando noi avevamo già organizzato gli spostamenti in maniera certosina, facendo le prove dello spettacolo Desaparecidos#43 a L’Aquila da Arti e Spettacolo, al Teatro Nobel per la Pace. Dovevamo infatti debuttare lì con questa nuova versione dove siamo in scena in due (Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno), per poi portarla in scena al festival di New Delhi. L’invito in Kerala ha scombussolato tutto, quindi abbiamo spezzato il periodo di prove a L’Aquila. Le abbiamo fatte all’inizio di gennaio, circondati dalla neve e dal freddo, e dovremo concludere a fine tournée il progetto a L’Aquila, presentando Desaparecidos#43 il 10 marzo nella stagione del Teatro Nobel per la Pace. I nostri partner e colleghi italiani con noi hanno molta pazienza ed elasticità. Sanno che siamo sempre dispersi per il mondo, e siccome si interessano sempre molto al nostro lavoro cercano di creare degli incastri, di venirci incontro quando ripassiamo dal via e tocchiamo il suolo italiano. Questa tournée in particolare non è stata facile da organizzare. Per noi questa è un’esperienza costruttiva: significa imparare a conoscere più lingue, più culture, ed essere reperibili ventiquattr’ore su ventiquattro per via dei fusi orari. La mattina presto, ad esempio, dialogo con l’India, alla sera si sveglia il Sud America e allora contatto il Sud America. Riuscire a mettere da soli insieme una tournée di questo tipo, calata anche in una forte dimensione di viaggio avventuroso, è sempre una grande soddisfazione. Ad alcuni incontri, date, abbiamo dovuto purtroppo rinunciare, ma cercheremo di recuperarle. Una volta che siamo dall’altra parte del mondo tentiamo sempre di combinare più appuntamenti e di invitare i partner che abbiamo conosciuto nel corso delle precedenti tournée, che approfittano della nostra presenza per programmare un workshop, degli incontri, delle conferenze. E devo dire che spesso e volentieri riusciamo a complicarci l’esistenza e il calendario, intasandolo senza avere mai un giorno libero tra una tappa e l’altra.
Non è la prima volta che andate in India. Che tipo di sensibilità artistica incontrate quando andate in questi luoghi? Qual è il rapporto con operatori, critici, e le altre compagnie?
Sì, questa è la nostra quarta volta in India. Abbiamo un rapporto consolidato con questo paese e soprattutto con il suo pubblico. È molto caloroso, si alza in piedi alla fine degli spettacoli ed è sempre desideroso di condividere le proprie curiosità, di porci delle domande. Vogliono conoscere le motivazioni che ci spingono a fare questo tipo di teatro, da che cosa nasce, perché è così diverso da quello che sono abituati a vedere, e, soprattutto, scambiano osservazioni sul modo in cui noi utilizziamo il corpo. Mi vengono a fare i complimenti al riguardo, mi dicono «you’re so flexible!», che, detto nel paese dello yoga, mi sembra quasi strano sentirmelo dire! Comunque sì, troviamo sempre un pubblico molto attento e che riempie i teatri. Qui ha poco senso dire «abbiamo fatto sold out»; qui è sempre un sold out. Se uno spettacolo è atteso il teatro si riempie, la gente ha curiosità. Quando lo scorso anno ci hanno chiesto di fare una replica straordinaria al Theatre Olympics, dentro un auditorium di seicento posti (con Made in Ilva) ero un po’ preoccupato: invece il teatro fu pieno anche in quell’occasione. Ci aspettiamo lo stesso al Festival Bharat Rang Mahotsav, che già conosciamo. Anche in Kerala c’è stato molto pubblico, forse ancora meno abituato a vedere il nostro tipo di teatro. Il paese si è ripreso bene dopo l’alluvione ad agosto, che minacciava questa edizione del festival. Sono riusciti a mettere insieme anche stavolta un programma internazionale. È stata un’esperienza molto intensa, nel giro di due giorni abbiamo fatto tre repliche. C’è stata molta attenzione da parte dei giornalisti, sono usciti tantissimi articoli, ma non sappiamo che cosa dicono, perché le recensioni non sono neanche scritte in indi, ma nella lingua locale. Per noi, quindi, sono dei bellissimi geroglifici con delle belle foto. Qui, un po’ come in Italia, i critici fanno anche da moderatori durante gli incontri, che sono meet the director o meet the artist, e vi abbiamo preso parte anche noi. Una giornalista che ha fatto uscire un pezzo sul nostro spettacolo prima che arrivassimo al festival ci ha intervistato. Sono sempre molto curiosi di conoscere il nostro background, di capire come ci siamo formati, perché qui vige molto, da un lato, il modello dell’accademia, e, dall’altro, quello dell’attore cinematografico in stile “Bollywood”. In Nepal sarà invece una sorpresa, ma anche in questo caso abbiamo intuito che c’è molta curiosità e desiderio di riceverci, perché ci hanno un po’ convinto a fare questa prima tappa in una città che è molto lontana da Katmandu: faremo dieci ore di pullman, saremo quasi al confine con l’India, a Biratnagar. Abbiamo proposto di fare un workshop insieme allo spettacolo Desaparecidos#43 per includere almeno due o quattro attori locali nella struttura dello spettacolo in qualità di coro. In Nepal hanno infatti chiesto questo spettacolo perché purtroppo sono sparite molte persone. La questione delle sparizioni forzate è un problema che affligge quindi anche questo paese, e sia per noi sia per loro del festival era allora molto importante condividere questo tema con un workshop pratico, permettendo ad attori locali di esprimersi attraverso la struttura del nostro spettacolo. Andremo a fare il workshop e poi torneremo a Katmandu, che mi sembra una città già più abituata al teatro, perché è la sede del festival.
Le possibilità di incontrare le altre compagnie sono sempre poche. Si tratta di festival giganti e gli spettacoli si susseguono a un ritmo incalzante. Negli anni non sono mancati, tuttavia, piacevoli incontri: soprattutto l’anno scorso, al Theatre Olympics, dove abbiamo incontrato Eugenio Barba e Pippo Delbono, e addirittura una sera ci siamo ritrovati a cena con il direttore del festival e la compagnia di Romeo Castellucci a cantare Romagna mia, perché ci avevano chiesto di cantare una canzone italiana.
A proposito dell’Italia: come va qui, nel frattempo?
«Come va nel frattempo in Italia» è la cosa che ci chiediamo spesso quando siamo fuori dall’Italia. In questo momento, per esempio, sono su una terrazza torturato dalle zanzare, cercando di chiudere le domande ministeriali proprio per chiedere dei fondi ulteriori per questa tournée. Il lavoro non è facile senza la nostra presenza in loco. Soprattutto, è difficile cercare di creare dei “ponti”, come questo di Desaparacidos#43 tra L’Aquila e l’India che per noi è molto interessante. Stiamo iniziando a vedere l’Italia come se fosse uno dei paesi toccati dal tour, nel senso che a volte ci sembra un po’ il contrario, che sia il nostro paese quello in cui ci spostiamo temporaneamente per andare a fare gli spettacoli. Bisogna anche dire che se da una parte quest’anno sono tante le tappe internazionali, allo stesso tempo abbiamo anche una bellissima occasione produttiva con il nuovo spettacolo The Global City, che sarà co-prodotto dal Teatro Nazionale di Genova e il festival internazionale in Uruguay. È un altro modo per creare un’interessante connessione tra Genova, la Liguria e l’Uruguay: molti migranti in quest’ultimo paese, infatti, erano proprio italiani, e in particolare genovesi che sono andati in Uruguay contribuendo a fondare la capitale Montevideo. Quindi avremo delle tappe produttive non appena torneremo dalla tournée. E saremo inoltre in residenza artistica a Cascina, a marzo. Visto che The Global City parla anche delle nostre memorie nelle megalopoli, di sicuro porteremo un po’ di India in questo nuovo lavoro.
Per voi etica ed estetica si fondono: in che senso? Cosa ne pensate degli scandali che vedono coinvolti artisti e registi di successo? Vi sembra giusto che quegli artisti, la cui reputazione è compromessa – ma che hanno prodotto opere di rilevante e indiscutibile valore in passato – vengano definitivamente bannati dal sistema?
Per quanto riguarda gli scandali, noi siamo molto concentrati sul nostro lavoro e un po’ fuori da tutto ciò che sono i gossip e queste questioni che rimbalzano sul web e sui social network. Ci toccano molto poco, diciamo. Penso comunque che non è bello che il lavoro artistico venga intaccato da altre cose: ha un suo valore che non dovrebbe essere inficiato da fenomeni di un giorno. Penso che l’arte parli per se stessa e sia su un livello superiore rispetto a ciò. Tuttavia non è facile, e credo, piuttosto, che siano tanti i problemi che disturbano anche il nostro lavoro, e che sono offensivi, a volte, persino infamanti, e derivano purtroppo proprio dall’ambiente in cui siamo. Mi piacerebbe, invece, che tutto fosse valutato solo sulla base del lavoro artistico. Abbiamo scelto questa strada e facciamo teatro perché ci sentiamo portatori di questa sorta di missione poetica, che è davvero un fardello! Noi proviamo a portare bellezza in questo mondo e a veicolare un messaggio. Sicuramente questo ci aiuta molto a staccarci da tutto, perché siamo spesso in contatto con tante facce del mondo. Anche quello che vediamo qui in India è molto forte, impattante, attribuisce un senso diverso al tempo e alla vita, alcune cose della quotidianità perdono di valore, diventano irrilevanti in confronto a quello che vediamo o agli incontri che facciamo, all’umanità, insomma, che ci invade quando siamo in giro per il mondo.
L’etica di cui noi parliamo è un’etica professionale, non tanto personale, e siamo d’accordo sul fatto che quest’ultima non dovrebbe incidere su quello che un artista produce. Per quanto riguarda la prima, abbiamo la tendenza a sposare delle cause e dei progetti perché, magari, abbiamo scelto di affrontare delle tematiche particolari, come è accaduto per Desaparecidos#43. Quando abbiamo deciso di portare avanti questo specifico progetto ci siamo detti che non volevamo solo trattare un tema, ma condividere una causa. Ci siamo trovati diverse volte a essere degli “attivisti teatrali”, per così dire, cioè nella condizione di voler veicolare un messaggio chiaro e non semplicemente di voler prendere parte a un festival. Anche in questa tournée abbiamo scelto di aggiungere la nostra partecipazione al festival del Nepal, perché lì sono avvenute delle sparizioni forzate. E le persone che lavorano con noi hanno accettato di aderire al progetto, pur non avendo delle entrate enormi. Ma va bene, perché in questo paese le persone guadagnano circa un euro al giorno, e questo ci dà la misura di quale sia anche la portata economica del festival. In America Latina avevamo sposato un progetto, quello del Teatro Para el Fin del Mundo, dove i ragazzi che lo organizzano fanno teatro nei luoghi abbandonati di alcune città del Messico, così come eravamo anche stati in Argentina e in Uruguay, sempre all’interno dello stesso festival. Per noi sono state collaborazioni importanti, che hanno avuto delle ricadute sul sistema sociale di quei luoghi, e per questo abbiamo scelto di appoggiarle. Viceversa, a volte, in Italia e in Europa esistono dei contesti che potrebbero dare un sostegno maggiore agli artisti e, invece, chiedono loro di andare in scena gratuitamente, nonostante abbiano le necessarie risorse economiche. Di conseguenza, in questi casi non ce la sentiamo di dedicare tempo ed energie, favorendo sistemi del genere.