Intima e catartica: è la primavera dei teatri a Castrovillari di Katia Ippaso

Foto di Angelo Maggio

Del mondo di fuori resta un riverbero lontano, l’eco di un combattimento estenuante, qualcosa che non ha fine. L’ultima edizione di Primavera dei Teatri si è presentata così, agli occhi di chi l’ha attraversata. Una scena intima, crepuscolare, solo a tratti rabbiosa. Le donne e gli uomini di teatro hanno sofferto di pandemia, certo, ma soprattutto di solitudine. Molte porte sono state chiuse. La casa è diventata il centro del mondo: con tutto quello che di confortevole, ma anche di furioso, disperato, può contenere la casa. Mentre la guerra è esplosa così vicino, ma così vicino, da far riaffiorare la paura che non si dice. Come vivere? Come passare i giorni e le notti? Nel computo drammatico dei morti, avanza sempre una vita di troppo. La nostra. Che cosa dovremmo farcene? È un sentimento che si insinua sottile, nelle sere piovose della primavera, a Castrovillari. Si insinua al cospetto de I Persiani di Eschilo, “la tragedia più antica del mondo” che I Sacchi di Sabbia hanno affidato alla presenza di un solo uomo, Silvio Castiglioni, attore e filosofo, che qui si presta al ruolo di narratore-orchestratore di un fascinoso teatro di figura.

Foto di Angelo Maggio

I soldati fatti di stoffa e legno vengono disposti su due piccoli palcoscenici, disegnando traiettorie corali e insieme solitarie, che prendono vita con la parola, la luce e il suono. L’opera avrebbe forse avuto bisogno di una diversa prossemica, di un avvicinamento dello spettatore che a tratti, nella frontalità della scena, si è sentito lontano dal campo di battaglia. La scomodità della visione non ha impedito, però, di comprendere la sensatezza di un’operazione scenica in cui la tragedia più antica del mondo è stata messa in vita dagli strumenti teatrali più antichi del mondo: la voce e le figure miniaturizzate.

Foto di Angelo Maggio

Ancora più fioca, crepuscolare, ai limiti dell’esclusione della figura spettatoriale, ci è sembrata la proposta della compagnia Occhisulmondo: La sindrome delle formiche, testo di Daniele Aureli, che firma anche la regia assieme a Massimiliano Burini. Un uomo (Ciro Masella) e una donna (Giulia Zeetti) dialogano sul filo di una scena solo apparentemente tesa, in realtà ondivaga, intorno a qualcosa di indefinito. C’è il tema del compleanno, ma un moto d’inerzia ingloba ogni cosa. Si resta fermi. Dove siamo? Si può pensare al grembo materno, a una emergenza post-apocalittica, a qualunque altra situazione, ma nulla di preciso si configura alla fine di questo match esangue, senza bordi. Notevole, però, il lavoro attoriale, specialmente quello di Giulia Zeetti, che fa di tutto per tenere in piedi ciò che invece è destinato a disperdersi e smarrirsi (conoscevamo già Ciro Masella, attore notevole, che ha però qui, inspiegabilmente, trovato nel sussurro inudibile la propria cifra).

Foto di Angelo Maggio

Di solitudine ci parla espressamente Lisa Ferlazzo Natoli che, dopo tanti anni dal suo folgorante debutto come interprete della poesia russa e una carriera di regista sempre più raffinata, decide di prodursi in un monologo, Città sola, che scandaglia l’omonimo libro della scrittrice inglese Olivia Laing (2016), con l’aiuto del drammaturgo Fabrizio Sinisi, dei paesaggi sonori di Alessandro Ferroni e degli ambienti visivi di Maddalena Parise. Se la parte iniziale – affidata a lettura su tablet – fatica a rompere la quarta parete, l’assolo riesce poi a staccarsi dal codice del “dialogo tra artisti”, per provocare un cortocircuito crescente tra l’interpretazione emozionalmente esatta di Lisa Natoli e le scene di vita marginale, randagia, che Laing va ricostruendo attraverso il suo libro.  A parte la figura luminosa e drammatica di Billie Holiday, le storie più potenti si legano alle vite di donne e uomini sconosciuti, segnati da malattie, ossessioni, persecuzioni, vocazioni senza eco che si nutrono di paesaggi detritici (amplificati da immagini molto stilizzate). Storie di solitudine che arrivano a colpire plasticamente la nostra immaginazione, in un momento del tempo in cui bisogna essere pazzi per non sentirsi ancora più smarriti, fragili, abitanti di una terra sempre più desolata.

Foto di Angelo Maggio

Anche Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari partono dalla brutalità del mondo. Nel loro ultimo lavoro, presentato in anteprima a Primavera dei Teatri, LidOdissea, le figure omeriche diventano materiale per un’avventura lirico-pop che trattiene una sana disobbedienza rispetto all’accettazione conformista di qualunque crimine quotidiano. Perché la guerra che ci raccontano Berardi e Casolari, qui in scena con due nuovi compagni di viaggio, la cantante Silvia Zaru e il più giovane attore Ludovico D’Agostino (assimilati in compagnia dopo I figli della frettolosa), è una guerra assonnata e complice che ha eliminato il campo di battaglia. La violenza, che scorre per tutto il corso dell’opera in forma di racconto, è violenza sociale, assimilazione di ogni forma di dissenso, smembramento del corpo comunitario. Un lavoro ancora sgrammaticato in alcuni passaggi drammaturgici (troppo apodittici), che troverà però sicuramente la propria sintesi scenica. Intanto, il LidOdissea è nato, con le sue figurine azzoppate, raminghe, arrabbiate, relitti umani sopravvissuti a stento a un mondo esploso. Anche qui serpeggia un senso di solitudine, ma domina una forma vitalistica, clownesca, tipica di Berardi e Casolari, insensibili alle mode: figure chapliniane di un autentico teatro del disarmo.

Foto di Angelo Maggio

 Come in LidOdissea, che ha incorporato alcuni passaggi dei laboratori fatti con donne e uomini non vedenti o ipovedenti, anche Felicissima jurnata della giovane compagnia napoletana Putéca Celidònia nasce da un lavoro sul campo, fatto in questo caso a contatto con gli anziani del Rione Sanità (dove la compagnia si è insediata nel 2018). Vera sorpresa di questa edizione del festival, lo spettacolo trascrive – e reinventa – in lingua napoletana Giorni felici, adattando la partitura beckettiana alla vita di un basso. Splendida interpretazione di Antonella Morea, che diventa una Winnie popolana, capace di fondere in ogni sua battuta dramma e commedia. Al piano di sotto, coperto dalla sua grande gonna, vive Willie (Dario Rea), un uomo ormai sordo che si è ritirato dal mondo e con il quale la moglie continua però, a suo modo, a dialogare, tenendo sempre acceso il ricordo di quello che è stato. In alternanza, le voci registrate raccolte da Emanuele D’Errico (drammaturgo e regista) in giro per i bassi del rione Sanità: storie d’amore di chi ha passato tutta la vita insieme e, come Winnie e Willie, cerca un modo per parlarsi ancora, per vegliare sull’altro, fino all’ultimo respiro. Il lavoro d’inchiesta che è alla base dell’opera non sovrasta l’andamento teatrale. Al contrario, riesce a rendere abitato, fertile, il sottosuolo beckettiano.

Foto di Angelo Maggio

Come sempre, a Primavera dei Teatri domina il senso d’accoglienza, la capacità di far sentire gli altri a casa. Sta di fatto che due tra le anime del festival (diretto da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano) siano anche, a loro volta, artisti. Saverio La Ruina ha portato così Via del Popolo, il suo commovente assolo dedicato al padre scomparso (di cui abbiamo già scritto per Liminateatri – https://www.liminateatri.it/?p=6066 – : nel frattempo è entrato nella terna finalista delle Maschere del Teatro come miglior monologo), proprio là dove tutto è nato, a Castrovillari, celebrando assieme ai suoi concittadini l’epopea delle piccole cose, la vita oltre la morte, in un rito che si crea senza sforzo, con la naturalezza di chi, prima di parlare, ascolta: la scena, le parole, i silenzi, quelli che non ci sono più, quelli che ora sono lì, in sala, e infine se stesso.

Foto di Angelo Maggio

Sceglie la strada della catarsi, infine, Dario De Luca, consegnandoci una fiaba antica, Re Pipuzzu fattu a mano, un melologo per tre finali che ha orchestrato assieme al polistrumentista Gianfranco De Franco. Raccolta dallo studioso Letterio Di Francia, nella riscrittura di Marcello D’Alessandro, l’antica fiaba calabrese Re Pepe diventa, davanti ai nostri occhi, un laboratorio in cui poter convocare l’infanzia e i suoi prodigi. Il cuntu è un’arte rara che rischia spesso l’eccesso di formalismo, l’implosione virtuosistica. Ecco, in questo caso il pericolo non si è corso. Nonostante l’uso della lingua dialettale, Dario De Luca ha saputo parlare agli spettatori, veri destinatari della sua sapiente affabulazione. Ed è così che, senza difficoltà, abbiamo potuto assistere alla gestazione dello sposo perfetto, quel Re Pipuzzo che una principessa molto poco incline al matrimonio combinato, si crea su misura, impastando farina e zucchero. La fiaba ci parla anche di migrazioni e nomadismo. Sciogliendo le avventure di Pipuzzo e Reginotta su tre possibili finali: saranno gli stessi spettatori a scegliere, divertiti, quale ascoltare.

Primavera dei Teatri, Castrovillari (CS), dal 27 maggio al 4 giugno 2023.