Non diremo nulla di nuovo, lo sappiamo, sostenendo che Io Capitano, opera ultima di Matteo Garrone, in sala dal 7 settembre con 01Distribution, è un film potentissimo, di quelli che vanno assolutamente visti. Già insignita del Leone d’argento alla regia a Venezia, dove è stata accolta con dodici minuti di applausi, candidata a rappresentare l’Italia nella corsa alle nomination per l’Oscar 2024 come miglior film internazionale, la pellicola si è intanto aggiudicata anche il premio del pubblico per il miglior film europeo al Festival di San Sebastian in Spagna. Senza dimenticare gli altri riconoscimenti ottenuti al Lido: il Premio Francesco Pasinetti assegnato dai Giornalisti Cinematografici (SNGCI) fra tutti i titoli italiani in concorso e nelle varie sezioni della Mostra; il Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore emergente andato al suo interprete Seydou Sarr, debuttante assoluto, e il Soundtrack Stars Award 2023 per la miglior colonna sonora tra i film della selezione ufficiale che ha premiato l’autore delle musiche Andrea Farri.
Al centro della trama è l’odissea vissuta dal sedicenne senegalese Seydou (Seydou Sarr, appunto) e da suo cugino Moussa (Moustapha Fall, anche lui bravissimo) che partono da Dakar per raggiungere l’Europa, meta ideale e idealizzata, malgrado gli avvertimenti di chi più saggio o forse solo previdente li mette in guardia dall’andare. Dal Mali al Niger, attraverso lo sconfinato deserto del Sahara, fino all’arrivo in Libia, dalle cui coste intendono poi salpare alla volta dell’Italia, niente viene risparmiato ai due adolescenti durante il tragitto: dalle fatiche del percorso alle prepotenze delle guardie di frontiera affamate di denaro alle torture nei famigerati centri di detenzione libici, dai quali pure non si esce se non pagando (i soldi o la prigione, i soldi o la vita sembra essere il mantra privilegiato di chi da quelle parti detiene una posizione di potere o comunque di forza rispetto ai più sfortunati e derelitti). Seydou viene perfino venduto come schiavo (schiavo!) a un padrone, prima di riottenere da questi la libertà e infine accettare, in cambio di uno sconto sul prezzo di imbarco, di guidare un malandato barcone nel Mediterraneo. Lui che non sa neanche nuotare, si troverà ad aver affidata nelle mani la vita di duecentocinquanta persone, stipate a bordo in condizioni disumane.
Garrone, insieme ai cosceneggiatori Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, fonde nella vicenda alcune storie vere di migranti, in particolare quelle di Kouassi Pli Adama Mamadoum, detenuto e seviziato per quaranta mesi in un campo libico prima di arrivare sulle coste italiane (oggi è attivista del Movimento Migranti e Rifugiati di Caserta) e di Fofana Amara, che ancora minorenne all’approdo a Lampedusa fu arrestato e condannato come “scafista” (e che a tutt’oggi dopo anni non ha ancora il permesso per viaggiare fuori del Belgio dove vive e lavora).
I rischi di maneggiare una materia simile, resa incandescente dalle cronache e dal dibattito politico, non erano pochi, in primis il pericolo di una narrazione farcita di retorica o sbilanciata verso il film tout court di denuncia. Garrone riesce a schivare le insidie, rifuggendo innanzi tutto lo stereotipo del migrante africano che si lascia alle spalle le macerie di un conflitto, la devastazione dei cambiamenti climatici o la fame disperante. Seydou e Moussa vivono insieme alle loro famiglie «una povertà molto dignitosa» in una Dakar coloratissima, danzante e perfino gioiosa, ma come tutti i giovani del mondo aspirano a realizzarsi, a trovare la loro strada. In questo senso Io Capitano, riassumiamo da una recente intervista al regista, mette in luce «un’ingiustizia profonda»: l’ingiustizia di un mondo globalizzato (forse solo a parole o per il mercato) che preclude ai vari Seydou e Moussa di inseguire i loro sogni, fosse «anche solo di cercare di conoscere il mondo per avere opportunità migliori». E di farlo liberamente, al pari dei loro coetanei occidentali, senza per questo rischiare la vita. Ugualmente Garrone ribalta il punto di vista da cui siamo abituati, e assuefatti, a guardare alla migrazione: sceglie di «mettere la macchina da presa dall’altra parte» e «far rivivere il viaggio dall’interno, in soggettiva», dando – in sequenze ora concitate di movimento ora di respiro più disteso – «forma visiva» a quella porzione di “traversata degli orrori” che resta nascosta alla nostra prospettiva e di cui crediamo di sapere tutto. I corpi lasciati a morire nella sabbia del deserto, i cadaveri ammassati nelle prigioni in Libia, lo strazio di giorni e notti di navigazione in mare aperto.
Sempre nell’ottica dell’autenticità, Garrone gira il suo film interamente in wolof, la lingua parlata in Senegal, misto al francese (e fa a meno anche del doppiaggio). Eppure non indugia mai più di quanto occorra nella descrizione del dolore, per evitare facile presa. Preferisce piuttosto contaminare il racconto del reale con inserti onirici e fiabeschi e soprattutto consolidarlo intorno a dinamiche universali e modellizzanti. Struttura, tappe, figure e passaggi del viaggio di Seydou posseggono la valenza simbolica di un itinerario iniziatico, denso di prove, di scoperte e conquiste. Io Capitano ridisegna il mitico “viaggio dell’eroe” lungo la moderna rotta dei migranti. Perché in fondo il suo protagonista Seydou è questo: un eroe dei nostri giorni, partito ragazzo, arrivato uomo, il cui urlo poderoso e liberatorio del finale ci scuote prepotentemente, tutti, che lo vogliamo o no.