“Joker” di Todd Phillips riscrive il confine tra cinecomic e film d’autore di Carlo Alberto Biazzi

Una risata straziante, quasi patetica, di quelle che danno fastidio. È così che inizia il film. È così che la conturbante figura del Joker fa la sua comparsa nel tanto atteso film di Todd Phillips, vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia.
L’inizio della pellicola ci catapulta in una città che potrebbe essere una delle tante metropoli che dominano il mondo, una Gotham City che assomiglia a una qualunque città in degrado.
Qui vive Arthur Fleck, un individuo profondamente alienato, che abita con sua madre. Insieme al sogno di diventare, un giorno, un grande cabarettista, l’uomo lavora come pagliaccio per guadagnarsi il necessario.
La sua depressione cresce a dismisura, il raro disturbo di cui soffre – una patologia che gli provoca attacchi di riso incontrollabili – non se ne va nemmeno con l’aiuto delle medicine e dell’assistente sociale di cui beneficia.
Joker è un film straordinario. Lo dico senza mezze misure. È una splendida esperienza “viscerale”, libera di raccontare quello che le pare e che riscrive il confine tra cinecomic e film d’autore.
Avvicinarsi a questo film con l’idea di vivere in prima persona la storia del villain più famoso dell’universo di Batman è in parte sbagliato.
Il Joker di Phillips racconta uno spaccato di vita sociale, la vita degli emarginati, quelli che non hanno voce. Un pugno allo stomaco che dura più di un’ora e mezza, il tutto supportato da una fotografia cupa e da una serie di location in decadimento.
Al centro, lui: Arthur. Lui e la sua metamorfosi. Lui: un soggetto che si sente rifiutato dal sistema. Qui, un qualunque individuo, può ritrovarsi in Arthur. Questo perché la pellicola di Phillips porta a simpatizzare con il personaggio, sottolineando come ogni sua azione violenta sia rivolta a chi gli ha fatto del male, a chi lo ha attaccato, a chi ha accresciuto i suoi traumi psicologici.
Arthur diventa Joker perché il sistema non lo aiuta; Joker è il frutto del marcio della società.
Insomma, parliamo della perfetta descrizione del mondo di oggi, con le sue discriminazioni e con le sue ingiustizie.


Perché è proprio questo il perno del film, non la storia in sé e per sé del cattivone dell’universo della DC Comics, ma un’indagine sociale che ci avvicina al mondo del silenzio, quello che oggi viene calpestato da un sistema che non funziona più e che partorisce soltanto dolore e sofferenza.
Esattamente come in Taxi Driver, il film a cui Phillips si ispira di più.
Dai classici di Frank Sinatra e Fred Astaire al rock di Gary Glitter e dei Cream, la colonna sonora perfetta di Joker ha conquistato anche il Soundtrack Stars Award 2019 per la miglior colonna sonora. La compositrice è l’islandese Hildur Guðnadóttir, riconosciuta per: «una colonna sonora che recupera alcuni tra i brani più noti della grande musica americana e per le composizioni originali… ».
La regia è ferma, sicura, gioca coi nervi dello spettatore e lo porta a conoscere un universo di follia. Ma il film si concentra soprattutto sulla memorabile prova attoriale di Joaquin Phoenix, e qui lo dico: sento profumo di Oscar.
È l’inizio di un nuovo modo di raccontare i supereroi? Non ci resta che aspettare per saperlo. Sicuramente, tra pareri discordanti circa l’originalità del film, Joker è molto diverso dagli altri lungometraggi della DC o della Marvel.
Lo consiglio, senza ombra di dubbio. È da vedere, da capire e da analizzare, per riuscire a comprendere, forse, anche un po’ noi stessi e le nostre follie, in un mondo che sta lentamente perdendo la capacità di dare voce e spazio ai meritevoli, a chi non ha la possibilità di emergere, a chi sta gridando aiuto, ma non viene sentito.