È in sala La bella estate, scritto e diretto da Laura Luchetti, «liberamente tratto» (l’avverbio nei titoli di testa) dall’omonimo romanzo breve che Cesare Pavese scrisse nel 1940 e con lo stesso titolo raccolse in volume per Einaudi nel 1949 insieme con Il diavolo sulle colline e Tra donne sole. L’anno successivo, il 1950, con quest’opera Cesarito – come lo chiamavano gli amici-colleghi della casa editrice torinese, tra i tanti nomignoli affibbiatigli – si aggiudicò il più ambito (per gli altri, non per lui) dei premi letterari. Appena due mesi dopo la vittoria allo Strega, nella notte tra il 26 e il 27 agosto, lo scrittore morì suicida, a neanche quarantadue anni.
Tornando al film, l’uscita ufficiale dopo la presentazione al Festival di Locarno è stata preceduta da una serie di anteprime tra Torino e Roma e di lanci di stampa. Molti gli elementi di interesse, dall’adattamento in sé alla presenza nel cast di Deva Cassel, figlia di Monica Bellucci e Vincent Cassel, al suo esordio sul grande schermo, passando, naturalmente, per la firma autoriale: Laura Luchetti è regista nota per sensibilità e poetica e cineasta apprezzata a livello italiano e internazionale.
La “bella estate” è la stagione calda e vibrante in cui Ginia, sedicenne trapiantata dalla campagna nella Torino del 1938 dove vive col fratello Severino e ha un impiego in un atelier di moda, si confronta tra timori e slanci con la scoperta della propria femminilità e del sentimento amoroso. In questo passaggio dalla giovanile innocenza all’età adulta, Ginia incontra Amelia, di poco più grande di lei ma certo molto più smaliziata, e diversa da tutte le altre ragazze, che di lavoro fa la modella e che la conduce in un mondo a lei sconosciuto: quello della bohème artistica torinese, con i suoi vizi e sregolatezze e la propensione a cogliere e godere dell’attimo fuggente senza remore alcune. Così Ginia si lascia sedurre dal giovane pittore Guido, sperimentando sulla sua pelle l’illusione, la delusione e la disillusione del divenire donna. Salvo poi ritrovare, nel ciclo ininterrotto delle stagioni che si rinnovano, una nuova e piena libertà di essere e di amare, proprio grazie ad Amelia.
La scrittura di Luchetti – in senso ampio, dallo script e oltre – si insinua in cerca di un suo spazio negli interstizi del soggetto fonte d’ispirazione, in ciò che in Pavese resta sotteso, la relazione omosessuale, il fascismo imperante, o affiora nelle pagine come pulsione latente e scatenante. Ecco che per esempio si trova a esplicitare, preannunciando il climax, l’aspirazione dell’adolescente Ginia a farsi ritrarre sulla tela al pari di Amelia (essere visti per esistere altrimenti si è nulla, con tutti i rischi di mostrarsi nudi proprio in quella fase di massima trasformazione e di transizione verso un’identità, individuale, sociale, è tema centrale e che ha forti riverberi nel presente). O ad attribuire a Ginia un talento, meglio: un’ambizione professionale, forse per costruire un personaggio femminile maggiormente in sintonia con la percezione attuale e nel contempo dare più consistenza alla “caduta” della protagonista e quindi alla sua capacità di rialzarsi e ricominciare.
Tuttavia, nel complesso, avvertiamo che nel film, pur confezionato con misura ed eleganza e accuratezza nella ricostruzione d’epoca, qualcosa manca a colmare le nostre attese di spettatore. In ritmo, in energia. Anche l’estrema vicinanza con la quale la macchina da presa segue e scruta nei primi e primissimi piani la “coppia” Ginia-Amelia (Yile Yara Vianello e, appunto, Deva Cassel) non vale ad annullare la distanza dallo schermo, tanto da consentirci di venire catturati e palpitare del fremito vero della “bella estate”.